Thursday, June 09, 2005

P. Neruda

Lentamente muore?
?Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni?giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non?rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.??Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su?bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni,?proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno?sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti?all'errore e ai sentimenti.??Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi è infelice sul?lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un?sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai?consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi?non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente?chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i?giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.??Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non?fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli?chiedono qualcosa che conosce.??Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo?richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di?respirare.?Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida?felicità.?
?P. Neruda

Wednesday, June 08, 2005

Critica dell'ipertesto

http://people.etnoteam.it/maiocchi/iperfilos/1mappax.htm
Notizie sull'autore
Mi chiamo Andrea Dallapina, vivo e risiedo a Verbania, sul Lago Maggiore, in Italia.

Sono nato nel 1972 e mi sono laureato il 5 dicembre 1997 in filosofia presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano, riportando la lode con la tesi: "Il filosofo dell'ipertesto - Aspetti gnoseologici ed epistemiologici della scrittura non sequenziale a proposito di Pierre Lévy".
Relatore: prof. Giulio Giorello (Filosofia della Scienza I)
Correlatore: prof. Marco Maiocchi, che ha seguito la parte più propriamente tecnico-informatica dell'opera, dietro suo suggerimento ho elaborato questa versione ipertestuale della tesi.

Gradirei molto ricevere critiche e suggerimenti alla mia opera.

Scrivetemi a dallapina@gse.it.
Ultima modifica del documento 10 gennaio 1998.



Critica dell'ipertesto
Lévy prospetta dunque tramite forme di reti ipertestuali (la cosmopedia e la cinecarta) la possibilità di una nuova scrittura che iscriva con maggior efficacia il pensiero dell'intellettuale collettivo. Vogliamo ora analizzarne i punti deboli.




Weissberg e l'impossibilità di un'ideografia
In due articoli apparsi sulla rivista Terminal, Jean-Louis Weissberg avanza le sue critiche a L'intelligenza collettiva. Nel primo [Weissberg (1996a)] si analizzano le conseguenze socio-politiche delle tesi di Lévy; nel secondo [Weissberg (1996b)], che a noi qui interessa, si esamina il progetto di una iscrizione del pensiero che ne riproduca la dinamica e di una relativizzazione dello statuto del linguaggio all'interno dell'espressione umana a favore di un'eventuale ideografia dinamica (titolo di un libro di Lévy del 1991 in cui si analizzano le moderne tecniche di rappresentazione dei sistemi complessi).

Pensiero senza resto

La prima domanda a cui Weissberg vuole rispondere è: «La pensée inscrite sans reste?» (si può scrivere il pensiero senza resto?).

Weissberg parte dall'osservazione che la cosmopedia ricerca «l'évanescence» del pensiero: fluidità, velocità, molteplicità; essa vuole superare il carattere pesante degli strumenti delle precedenti tecnologie intellettuali. Ma, ricorda Weissberg, il loro valore euristico non avviene malgrado, ma grazie a questo carattere, in virtù della necessità di un continuo lavoro di messa in forma, di traduzione, e «c'est le travail d'inscription, de traitment qui est producteur de sens». Poi continua dicendo che Lévy potrebbe obiettare che le cinecarte o altri strumenti degli intellettuali collettivi effettuano un lavoro d'iscrizione del pensiero. Va bene, ma che cosa le cinecarte vogliono iscrivere senza resto? Se non è il pensiero, sarà la rete di scambi collettivi, l'istantaneità dei movimenti relazionali. Ma delle due l'una, dice Weissberg: o questi movimenti, queste circolarità complesse, questi grovigli d'oggetti e di attributi massicciamente interconnessi sono presi seriamente come modelli e allora la leggibilità di un simile grafo è perfettamente oscura, oppure essi si vogliono esplorabili e allora si deve ridurre il movimento reale traducendo, filtrando, codificando. «Paradoxelment, plus l'inscription se veut proche du mouvement réel, plus elle devient confuse». E non basta dire che le cinecarte collettive sono in costante ricostruzione e modificazione per assicurare loro capacità mimetica. A meno di presupporre che i movimenti di ristrutturazione del gruppo vengano iscritti prima del loro manifestarsi. Così, dire che «il sapere è un continuum» e «la cosmopedia dematerializza le separazioni tra saperi» significa affermare il fantasma di una «totalité non-divisée»: «la "cosmopédie" dissout par principe la question des différences dans l'unification.»(21)

Pensiero per immagini

La seconda domanda è: «Penser par images?» (si può pensare per immagini? -a scapito del linguaggio-.)

Weissberg dice che l'iscrizione senza resto del pensiero di un collettivo suppone un movimento che Lévy descrive già in L'idéographie dynamique, dove immagina un sistema in grado di tradurre direttamente il movimento del reale e del pensiero tramite l'esposizione del sapere, non unidimensionalmente, logicamente, ma facendo interagire topologicamente più dimensioni cognitive. Questo progetto di cogliere il pensiero "interno" prima della sua espressione per dargli maggiore potenza, dice Weissberg, sembra ignorare il valore euristico delle cornici, delle forme, dei limiti alla libera espressione delle produzioni dello spirito. A testimonianza di ciò porta l'esempio della navigazione di ipertesti, in cui è ciò che vi presiede: ipotesi, teorie, orizzonti di senso, che permette un risultato, un guadagno, anziché un vagabondaggio aleatorio. Ma l'orizzonte di senso è dato dall'ordine del linguaggio, dal pensiero sequenziale che permette di passare dalla «navigation» alla «fixation» attraverso la «traduction». La formula matematica o l'ordine bidimensionale della tavola degli elementi sono degli esempi di traduzione-riduzione che portano a un guadagno conoscitivo attraverso la messa in relazione di alcuni parametri a discapito di altri. Anche la metafora o le «bon example» -in cui, dice Weissberg, Lévy eccelle- non si limitano a riassumere un'idea ma la radicalizzano per poterla esportare. L'animazione delle rappresentazioni del sapere non determina una lettura «augmentée». Da questo punto di vista la scrittura lineare offre un vantaggio incontestabile: tenta, con già molte difficoltà, di dire una sola cosa nello stesso tempo. Non è che non stabilisca delle connessioni, anzi, necessariamente le esplicita. Allora all'ideografia dinamica che vuole relegare il linguaggio alle funzioni di espressione e comunicazione, media tra i media, va ricordata la funzione costitutiva del mondo umano (e quindi del mondo) da parte del linguaggio. Il linguaggio suppone e nel contempo permette il pensiero astratto, e la sua difficoltà a esprimere la complessità e la simultaneità, anziché costituire un limite, «est une source de la puissance d'extériorisation humaine» che chiamiamo comunemente immaginazione, anticipazione, elaborazione, attività fantasmatica. Questo non vuol dire che esso possa tradurre integralmente le nostre pratiche di vita, ma che esso è l'interfaccia della nostra umanità.

La conclusione di Weissberg è che immagine e linguaggio, come altre competenze umane, sono in parte autonomi e parallelamente si contengono l'un l'altro. «Mais le langage est l'origine de leur différenciation». Noi sappiamo infatti che il gesto della scrittura alfabetica rende esplicita la peculiarità della voce di essere schema di traduzione di ogni saper fare [vedi voce e scrittura].

Le tecnologie intellettuali

Infine Weissberg si domanda se: «toutes le tecnologies intellectuelles sont-elles égalment efficaces?» (tutte le tecnologie intellettuali sono ugualmente efficaci?)

Weissberg critica la posizione di Lévy di dedurre dall'utilizzo, odierno e incerto, di alcuni nuovi strumenti informatici la loro possibilità di essere una tecnologia intellettuale fondamentale come la scrittura, la prospettiva o la stampa, che, da lungo tempo, hanno dato prova della loro potenza. Perciò egli conclude dicendo che, traduco dal francese, «la speranza di una traduzione dei fenomeni in segni dinamici "cartografanti" immediatamente i fenomeni, l'appello all'intuizione mentalo-visuale a scapito della razionalizzazione riduttrice, l'augurio del rispetto delle pluralità, della complessità semiotica, della molteplicità delle interazioni, è legittimamente sorgente di promettenti ricerche. Se le nuove forme di trattamento dell'informazione si eleveranno al rango di nuove strutture e affiancheranno l'effetto amplificatore dell'iscrizione del linguaggio sarà già un risultato considerevole. Non lasciamoci vincolare da una missione impossibile di espressione immediata, senza linguaggio, del pensiero».



Riepilogo
La critica di Weissberg ha l'indubbio pregio di riportarci al cuore della questione: l'ipertesto dovrebbe essere in grado, diventando cosmopedia, di permettere una nuova forma di scrittura che superi quello che anche Derrida denunciava come logocentrismo ne La grammatologia (1967) e di cui vedeva il superamento nella scrittura matematico-scientifica.

- La soluzione prospettata da Lévy è quella di un iscrizione grafico-dinamica del pensiero, quest'ultimo inteso come attività policentrica e collettiva.
- Weissberg da parte sua sembra risoluto: il pensiero non può essere espresso se non a partire dal linguaggio.

L'ipertesto come metafora di un nuovo modello cognitivo, come nuova scrittura capace di superare i limiti del linguaggio è dunque inefficace? Credo che una risposta possa essere data solo dopo avere esaminato la sua logica, ovvero quali rapporti intrattenga con il logos.


Logica dell'ipertesto
Per logica intendo qui la risposta alla domanda: come viene scritto il logos? (22)
Sin dall'inizio abbiamo caratterizzato l'ipertesto come scrittura non sequenziale. L'analisi della tecnologia ipertestuale ci ha portato a individuare quali sono le caratteristiche che lo rendono non sequenziale. Mi sembra utile individuare due livelli di non sequenzialità. Esiste un livello in cui la non sequenzialità si esprime come rete di "testi" inserita in una rete di "testi", Lévy, infatti, elenca tra i princìpi dell'ipertesto quelli di molteplicità e inscatolamento delle scale, ed esiste un livello in cui la non sequenzialità si esprime nell'eterogeneità dell'"alfabeto" ipertestuale.
Cosa comportano questi due aspetti non sequenziali nei rapporti tra scrittura e linguaggio?


Il "testo"

La rete ipertestuale esalta la caratteristica d'intreccio e di rinvio propria del testo in quanto textum, tessuto. Il testo della prosa linguistica cerca di fissare un significato stabile, come scrive Weissberg: di dire una sola cosa nello stesso tempo, di ritagliare al testo una sola forma. Questo vuol dire che il segno linguistico non è di per sé stabile.

Segno e "testo"

La teoria intralinguistica elaborata da Giampaolo Sasso (1993) mostra come il testo poetico utilizzi per arricchirsi di senso l'instabilità originaria del segno, definito come microtesto instabile. Il significante rimanda inconsciamente, anagrammaticamente, intralinguisticamente, attraverso il rinvio ad altri termini del testo, a relazioni semantiche non esplicite.

L'ipertesto sembrerebbe esplicitare questa instabilità del segno, il testo non rimanda più anagrammaticamente, ma con collegamenti ben evidenziati. La questione è: questo esplicitarsi dei rinvii, dei collegamenti, comporta un guadagno conoscitivo?

Prendiamo un esempio tratto da Sasso (1993). L'autore analizza numerosi testi poetici, tra gli altri L'infinito di Leopardi. In questo sonetto la locuzione del secondo verso: «questa siepe», rinvia secondo Sasso a quella finale: «tra questa immensità s'annega». L'analisi anagrammatica individua infatti all'interno di «questa siepe» i termini estasi e stasi (quESTA-SIepe) che vengono ritrovati in «tra quESTA/ImmenSITA' S'annega». Questi anagrammi producono ovviamente una lettura aumentata del significato dell'opera: la siepe è viatico a un'immensità caratterizzata come estasi in un infinito statico. L'analisi intralinguistica di Sasso porta a scoprire molti nodi anagrammatici all'interno del sonetto. Altro esempio: «quesT'ERMO colle» del primo verso anagramma delle «MORTE stagioni» del dodicesimo. Ora a noi non interessa l'analisi tecnico-statistica di queste occorrenze, osserviamo però che il segno linguistico laddove è maggiormente libero dalle imposizioni della prosa lineare, sembra costruire una serie di nodi e di intrecci semantici all'interno del testo. La teoria di Sasso è che ciò sia imputabile alla struttura neurofisiologica del cervello umano e ai suoi peculiari tempi evolutivi. Anche questo non ci riguarda, ma constatiamo che sembra esserci una intenzionalità inconscia nell'utilizzo del segno. E ci spingiamo a dire che questo misterioso inconscio è probabilmente l'emergere di un'esperienza originaria del linguaggio, di quel conoscere sinestetico che è l'incontro con il mondo e nel quale il linguaggio può manifestarsi, dicendo il mondo. Poi tramite la pratica alfabetica, l'origine mondana viene confinata come altro da sé. Ma attenzione siamo noi dalle menti logiche che introduciamo questa distinzione, che istituiamo una conoscenza sinestetica precedente alla nostra, per chi conosce sinesteticamente non ha senso parlare di sinestesia.

Pensare che l'ipertesto o qualche altra nuova tecnologia possano riprodurre la conoscenza "piena" di una fantomatica origine è illusorio. Gli stessi anagrammi, nel momento in cui vengono individuati ed espressi, finiscono con il fare il gioco del linguaggio concettuale, il loro valore è sempre determinato da un quadro di riferimento in cui essi sono altro, ed è difficile immaginare gli anagrammi o le figure retoriche se non a partire, seppur per opposizione, dal concetto(23) .

L'ipertesto perciò, esplicitando vari collegamenti tra i testi, porta una conoscenza aggiunta ma non diversa da quella concettuale-dialettica dell'Occidente.

Esso nasce in un'epistemologia relativista che sembra dire: la cosa piena non te la posso dare e allora cerco di farti vedere, annusare, toccare, sentire, gustare più aspetti possibili, in modo che tu possa costruire il "vestito" (il textum) della cosa: pratica che ha contemporaneamente l'effetto di produrre la cosa stessa. La rete non è dunque un continuum, è sempre una prospettiva particolare, è sempre il cercare una maggior individuazione della cosa, definendola dialetticamente rispetto ai suoi rapporti con il resto della rete. Faccio questa riflessione a lato: dire che l’ipertesto è la corretta raffigurazione dei processi della mente e che quest’ultima è quindi ipertestuale e non logica, è un dire che ha senso solo all’interno di una pratica che ha prodotto e frequentato la mente logica.

Come sappiamo un ipertesto può essere il nodo di un altro ipertesto, in quella che può ricordare una geometria frattale. Perciò il "mio" ipertesto va a modificare la rete esistente e può essere per il lettore un punto di partenza, di passaggio o di arrivo che può arricchire con nuovi collegamenti, nuove note. L'operazione di lettura diventa un'operazione di ri-scrittura, si tracciano nuovi percorsi, nuove associazioni. Ciò comporta un indebolimento dell'ideologia dell'autore, il soggetto che scrive diventa un soggetto collettivo. Si scrive da più centri. Ma ciò non fa che ampliare il fenomeno che, da quando è nata, la letteratura produce: citazioni, commentari.

Fermiamoci e domandiamoci: ma allora in che cosa è iper?

L’ iper-testo

In Il giardino dei sentieri che si biforcano di Borges (1956) il dottor Stephen Albert si domanda in che modo un libro può essere infinito e avanza alcune ipotesi: un libro circolare in cui l’ultima pagina è identica alla prima, "un’opera platonica, ereditaria, da trasmettersi di padre in figlio", in cui ogni generazione aggiunge un capitolo; oppure come l’opera di Ts’ui Pen creando diversi futuri e facendoli proliferare(24), come scriveva Mallarmé a proposito della sua opera incompiuta Le Livre: "un livre ni commence ni ne finit; tout au plut fait-il semblant" [Eco (1962), pag. 48].

L’ipertesto, come dovrebbe essere ormai chiaro, non è un anti-testo: non si pone in opposizione alla cultura bibliografica, anzi, alcuni ritengono sia la possibilità di realizzazione di un testo infinitamente interpretabile.

Eco (1996) ritiene però che occorra nettamente distinguere tra sistema (l’alfabeto) e testo. Il primo pur essendo costituito da un numero finito di componenti (le lettere) può dare origine a un numero illimitato di combinazioni, ma un testo: la Divina Commedia come una relazione tecnica, è finito e limitato e pur potendo avere numerose interpretazioni (la Divina Commedia ne ha probabilmente più di una relazione tecnica) non ne ha infinite: dalla Divina Commedia non si può ricavare la ricetta del timballo di piccioni dell’Artusi, nemmeno utilizzando la tecnologia ipertestuale. L’ipertesto perciò pur potendo facilitare il compito ermeneutico non ne muta il senso.

La rete ipertestuale può però realizzare quell’opera platonica tra generazioni a cui si accennava nel racconto di Borges, anzi ha la possibilità di realizzarla all’interno della stessa generazione. La peculiarità di un’opera ipertestuale, il suo essere iper, è quindi la possibilità di rappresentare la creatività diffusa. Infatti Lévy in L’intelligenza collettiva con la cosmopedia e le cinecarte non fa che proporci la realizzazione di una grande opera di conoscenza diffusa.

Questo sviluppo rizomatico della conoscenza comporta che non si scriva più la parola della verità, ciò che viene scritto è il sapere, inteso come saper fare, che perciò non risuona più per tutti ma ha senso solo per coloro che vi partecipano, vi interagiscono.
Ma come vengono scritti questi saperi?



L’"alfabeto"
L'ipertesto come abbiamo visto ha una non linearità dovuta alla sua struttura reticolare, ma anche l'eterogeneità del suo "alfabeto" frammenta la linearità.

Con "alfabeto" ipertestuale intendo quell’insieme di tecniche multimediali che consentono di comporre un ipertesto utilizzando scritti alfabetici ma anche immagini, suoni e altre esperienze sensoriali (non dimentichiamoci che pur avendo diverse forme la loro essenza è digitale). Ecco perché si tratta di un alfabeto tra virgolette. La scrittura della parola non è più il principale canale di comunicazione. Anche a questo livello assistiamo a quello che potremo definire un depotenziamento del logos. La voce non è più il canale privilegiato di trasmissione del sapere, l'enunciato discorsivo non è più prioritario. Allora perché continui a chiamarlo alfabeto, seppur tra virgolette?

Bisogna osservare che, pur mutando le qualità materiali, la logica compositiva dell'ipertesto è pur sempre basata su "lettere". La presenza di immagini, suoni o quant'altro è funzionale a una costruzione molecolare del significato. Lévy ne L'intelligenza collettiva (1994) insiste molto sul carattere molecolare dello Spazio del sapere, che oppone alla molarità del passato. E in una logica prettamente alfabetica ritiene che la struttura molecolare partendo dal basso possa spiegare il risultato sinestetico: il continuum del sapere di livello superiore. Un alfabeto molecolare è quindi per Lévy la spiegazione immanente in grado di rimuovere la metafisica e la trascendenza.

Ma l'atomo non è un tipico prodotto metafisico della scrittura alfabetica della voce di cui abbiamo parlato nella genealogia? L'ipertesto si rivela nel profondo un debitore della metafisica, dell'alfabeto, del logos. Eppure, se da un lato l'immagine assume un valore testuale, diventa "lettera", dall'altro accade che il testo evidenzi non solo una capacità enunciativa ma anche un valore iconico.

Da un lato diciamo che un'ideografia altro non è che la pretesa di riprodurre il movimento del pensiero tramite grafi e immagini, ipotizzando quest'ultimi come più potenti delle lettere della scrittura alfabetica. Dall'altro osserviamo che anche la scrittura alfabetica, scrittura lineare della voce, possiede un valore iconico-topologico: il testo poetico da tempo lo ricorda. Da una parte si vuol parlare con le immagini, dall'altro si vuol mostrare con le parole. L'ipertesto appare un catalizzatore di questi due processi.

L'ipertesto ha il merito di evidenziare il carattere iconico della scrittura che la pratica alfabetica aveva rimosso. Le lettere infatti devono essere sensibilmente "invisibili" per far accedere alla voce "pura", al significato. Ma prima di essere lettere erano disegni, riproduzioni iconiche del mondo. La non sequenzialità affida nuovamente al testo un valore topologico, non più l'infinita linea di scrittura ma la capacità di interfacciare, di collegare "luoghi" differenti è importante. Il testo ha un valore in funzione dei luoghi della "mappa del sapere" che connette. Ma così non sarebbe solo una nuova forma di scrittura dello schema definitorio delle idee, una sorta di pensiero visuale? La differenza sta nel fatto che l'ipertesto, come è già stato scritto, non possiede uno sguardo panoramico, il suo è sempre un interpretare in prospettiva. La mappa totalmente dispiegata non c'è mai.

Anche l'ipertesto, quindi, è un'immagine (Bild), anche per lui la forma logica è trascendentale (anch'esso è un gesto, una prassi come le altre forme di raffigurazione). Esso non dice nulla di più del linguaggio, non risolve o dissolve la trascendenza, ma quel nulla di più lo scrive secondo una particolare scrittura. Scrittura che nasce da pratiche che frequentano la scrittura alfabetica. Scrittura che si confonde con ri-lettura. Scrittura composta da immagini testuali e da testi iconici.

Riepilogo

- Il "testo" in quanto textum, intreccio, crea sempre rinvii al suo interno; l’ipertesto esplicita queste associazioni spesso inconsce all’interno di un’epistemologia relativista.
- L’ipertesto è iper poiché permette la produzione di opere che catalizzano la creatività diffusa in un collettivo.
- Anche l’ipertesto si fonda su "lettere", su grammata, che, pur essendo di natura digitale, si presentano a noi in modo eterogeneo (molti-mediale) portando nella lettura una dimensione di esplorazione spaziale.

L’etica si conclude dunque interrogandosi su che tipo di scrittura è quella ipertestuale.

Della tecnologia ipertestuale

Proviamo a dare una definizione d'ipertesto, d'altra parte la filosofia nasce come ricerca della giusta definizione: cos'è la virtù? cos'è il coraggio? cos'è l'ipertesto? «Con ipertesto intendo scrittura non sequenziale, testo che si dirama e consente al lettore di scegliere; qualcosa che si fruisce al meglio davanti a uno schermo interattivo. Così come è comunemente inteso, un ipertesto è una serie di brani di testo tra cui sono definiti legami che consentono al lettore differenti cammini. [...] L’ipertesto include come caso particolare la scrittura sequenziale, ed è quindi la forma più generale di scrittura». [Nelson (1990), pag. 0/2].
Theodor Holm Nelson, il primo a utilizzare all'inizio degli anni '60 il termine hypertext, ci dice che l'ipertesto è da intendere come «scrittura non sequenziale». L'ipertesto è dunque un tipo di scrittura (e quindi di tecnica, di pratica) che possiede una peculiarità, quella di essere non sequenziale. Questo fa pensare che esista una scrittura abituale che è sequenziale, poi c'è l'ipertesto che non lo è. L’ipertesto come monstrum, come eccezione della scrittura.

Subito dopo, però, Nelson fa sapere che, in realtà, anche chi scrive sequenzialmente, pur non sapendolo, frequenta un caso particolare d'ipertesto. Affermazione gravida della conseguenza che esista una «struttura di ciò di cui scriviamo» [Nelson (1990), pag. 0/3], che la scrittura debba rappresentare tale struttura e che possa riuscirvi meglio se liberata dalla sequenzialità.

Ma che cos'è la sequenzialità della scrittura di cui stiamo parlando?

La sequenzialità è un concetto cronologico istituito dalla pratica alfabetica. Nelle altre scritture non esiste sequenzialità intesa come infinita linea scrittoria del prima e del dopo, ma un tracciare che è un riempire la superficie spazialmente: un "cartografare" il foglio, la parete, la pergamena.

La sequenzialità alfabetica verrà affrontata nel prosieguo dell’opera, poiché non è a essa che Nelson si riferisce (anche se un concetto di sequenzialità può apparire solo dopo la pratica d’iscrizione alfabetica, come d’altra parte ogni concetto in quanto prodotto metafisico). Egli scrive, riguardo alla struttura ipertestuale: «serie di brani di testo tra cui sono definiti legami che consentono al lettore differenti cammini». Forse avrebbe fatto meglio a dire insieme di brani, poiché nella serie, un concetto di sequenzialità è già implicito. A ogni modo, l'autore vuole dire che ciascun brano non rimanda semplicemente a uno successivo: il capitolo 1, poi il capitolo 2, e se salto subito al nono e non capisco niente, non posso lamentarmi, dovevo leggere prima gli altri otto. Anche se spesso nei libri si dice: «come si vedrà più avanti», oppure: «come descritto in precedenza», creando un insieme di rinvii all'interno del volume stesso, a volte rimandando ad altri testi.

Allora l'ipertesto non è poi una grande novità. Dicendo ciò diremmo una cosa vera, perché l'ipertesto può nascere solo dopo una serie di pratiche, di tecnologie intellettuali che vengono analizzate nella genealogia; ma intenderemmo anche: «la scrittura è ipertestuale da sempre, solo che prima non se ne accorgevano». Perché non se ne accorgevano? Perché l'ipertesto «si fruisce al meglio davanti a uno schermo interattivo».

È davvero così: l'ipertesto è sempre stato possibile nella storia della scrittura, ma si è attualizzato grazie ai computer? Prima di rispondere dobbiamo conoscere meglio l’ipertesto.

enomenologia dell'ipertesto
Prima d'iniziare a praticare l'ipertesto, i già esperti dicono navigare oppure utilizzano il verbo inglese to browse (leggere senza ordine, cercare a caso, ma anche dare uno sguardo), orientiamoci con alcune frasi tratte da Le tecnologie dell'intelligenza di Pierre Lévy [Lévy (1990) ]: «Tecnicamente, un ipertesto è un insieme di nodi connessi da dei legami. [...] Navigare in un ipertesto, dunque è disegnare un percorso in una rete che può essere complessa quanto si vuole. [pag. 40] L'ipertesto riprende e trasforma delle vecchie interfacce della scrittura. [pag. 41] É in questa nicchia ecologica dell'informatica conviviale che l'ipertesto ha potuto essere elaborato dapprima, ed in seguito diffondersi. [pag. 43] L'ipertesto costituisce dunque una rete d'interfacce originale a partire da tratti presi in prestito a diversi altri media. [...] La quasi istantaneità del passaggio da un nodo all'altro permette di generalizzare e di utilizzare in tutta la sua estensione il principio di non-linearità. [pag. 44]»

Queste poche frasi di Lévy offrono un importante termine di paragone per i risultati che acquisirà l'analisi fenomenologica seguente. L'autore francese ci dice che l'ipertesto è una rete di significati e di interfacce reso possibile dalla quasi istantaneità di passaggio da un nodo all’altro e che la sua apparizione si è avuta grazie allo sviluppo di una particolare tecnologia: l’informatica conviviale. Teniamolo presente e andiamo alle navi.

Alle navi!

Salpiamo. Ma in quali mari si trovano gli ipertesti? Le due principali forme di fruizione d'ipertesti sono attualmente i CD-ROM e le reti informatiche (Internet, World Wide Web, etc.); come diceva Nelson: «Qualcosa che si fruisce al meglio davanti a uno schermo interattivo» [(1990), pag. 0/2].(1)

I CD-ROM interattivi.

Gli ipertesti su CD-ROM (disco compatto numerico: una memoria di buona capacità e di facile uso e trasporto) hanno iniziato la loro diffusione sul finire degli anni Ottanta. Solitamente sono edizioni di opere a carattere enciclopedico.
Sembra infatti, come sostiene Maldonado (1997) che gli ipertesti siano efficaci soprattutto nel trasmettere la conoscenza di saperi «con un nucleo fortemente strutturato»: per esempio le discipline tecniche e scientifiche. Perché questo? Proveremo a rispondervi dopo aver navigato.

Il supporto
Innanzitutto analizziamo questo famoso schermo interattivo: il supporto dell’ipertesto (va detto che il supporto dell’ipertesto è l’insieme di connessioni tra microprocessore, memoria, tastiera, mouse, schermo, scheda audio ed eventuali altre interfacce ma è lo schermo l’ambiente virtuale che ci permette di esplorare l’ipertesto); per farlo cercheremo un confronto con l’analisi fatta da Sini (1994, pagg. 20-24) sul supporto tradizionale della scrittura sequenziale: il foglio bianco.

Nell’atto di scrittura «il foglio bianco è un supporto materiale che però non vale per la sua materialità», per poter assolvere alla sua funzione di raffigurare «esso deve annullarsi per esibire "la raffigurabilità pura"». Il foglio esibisce il luogo di raffigurazione che non può essere raffigurato.

«Il foglio bianco è un nulla, un’assenza, una potenzialità (di infinite raffigurazioni), è un bilico (cioè una soglia, in quanto il luogo di raffigurazione non c’è senza supporto materiale)». Esibendo «sensibilmente i "caratteri di nulla": il foglio è l’analogon materiale di questo nulla». Esso si mostra bianco e sottile e quindi trapassabile, disponibile ad accogliere. Ciò nonostante il luogo di raffigurazione «è semplicemente alluso dal bianco del foglio» poiché esso «può essere supportato da tutto senza che però si identifichi con nulla».
Il supporto (foglio bianco, parete o schermo che sia) è perciò indispensabile perché possa avvenire qualsiasi forma di scrittura(2). Sini definisce "cartiglio" il supporto che rende possibile l’apertura di un luogo di rappresentazione.

Il foglio stampato, la stele ideografata, la parete pittografata, lo schermo elettronico in quanto cartigli devono avere qualcosa in comune che li fa essere tali e nel contempo ognuno assolve al suo compito di cartiglio secondo peculiarità proprie. Cos’hanno in comune il foglio bianco e lo schermo elettronico? e cos’hanno di differente?

Lo schermo interattivo (vedi i princìpi dell’interazione conviviale) presenta anch’esso caratteristiche funzionali simili al foglio bianco. Entrambi si offrono come superficie ed entrambi nel loro raffigurare tendono ad annullare la loro materialità: davanti al monitor raramente ci ricordiamo dell’appendice rappresentata dal tubo catodico, dai cavi d’alimentazione e dalla connessione con l’elaboratore, ce ne ricordiamo solo quando dobbiamo spostarlo o qualcosa non funziona. Se dal punto di vista fisico le differenze sono evidenti e a favore del più maneggevole foglio, per quanto riguarda l’essere supporti della prassi scrittoria quali sono le peculiarità? Lo schermo interattivo ha dei vantaggi che compensano la sua pesantezza fisica?

Nel foglio l’azione di scrittura-conservazione-lettura avviene sul medesimo supporto fisico. Agisco su di un foglio con la mia biro, poi lo ripongo in un cassetto e domani se voglio leggerlo lo riprendo in mano. Quando scrivo al computer, l’impressione è quella di scrivere sul video. In realtà io digito su di una tastiera che non si modifica per la mia azione, anche se scrivo l’Odissea alla fine la tastiera resta uguale a quando ho iniziato, essa infatti invia degli impulsi che modificano gli stati dei semiconduttori interni alla "scatola" del computer. È la memoria temporanea o permanente del computer a variare, poi avviene che il microprocessore modifichi gli stati dei pixel dello schermo. Tastiera, memoria e video rendono rispettivamente possibili la scrittura, la conservazione e la lettura. Queste funzioni, che il foglio assolve insieme, ora possono essere separate: io posso scrivere con la tastiera di casa mia sulla memoria di un computer che si trova a Torino e visualizzarne il testo a Como (l’opera di retroazione di guardare cosa scriviamo fa si che tastiera e video siano sempre presenti contemporaneamente, ma in linea di principio questo non è necessario).

Inoltre mentre un foglio, per quanto grande sia, si "consuma", nel senso che può essere supporto per un numero limitato di grafi, il video invece contiene potenzialmente infiniti fogli. Anche il foglio bianco è potenzialmente infiniti fogli. Ma una volta che è stato realizzato secondo una delle sue possibilità, una volta che è stato inciso e quindi de-ciso, riduce le sue potenzialità e, se trattiamo la cosa in termini di progetto e interpretazione, possiamo dire che attualizzandosi in un determinato foglio scritto, esso riduce la sua virtualità, la sua apertura a. Non così invece lo schermo che può sempre essere ri-deciso, ri-scritto; in cui posso aprire infinite finestre di scrittura(3). Se traccio una linea su di un foglio bianco in qualche modo compio una decisione irreversibile, instauro una storia del foglio: scripta manent (se la linea è a matita posso cancellarla ma difficilmente il foglio ritornerà com’era all’origine), ma ogni volta che spengo lo schermo questi ritorna nero esattamente com’era prima che lo utilizzassi, ciò che è stato modificato è la memoria del computer, ma anche questa, volendo, può ritornare esattamente com’era all’inizio: si può sempre formattarla.

Mi permetto una piccola disgressione per analizzare la differenza linguistica per cui il foglio vuoto è per antonomasia quello bianco mentre lo schermo vuoto è per eccellenza quello spento, quello nero. Questa differente definizione cromatica credo abbia un suo valore ermeneutico: il bianco, colore virginale, ha in sé tutti i colori, il deciderlo è quindi una sottrazione; il nero, colore funebre, è l’assenza di colore, l’inciderlo è un fare apparire dal nulla, e mentre la verginità non torna più, il nulla e la morte ritornano sempre.

Alla fine di questo confronto tra foglio e schermo possiamo dire che il secondo è una virtualizzazione del primo in quanto problematizza, evidenziandolo, l’emergere dal nulla della traccia che è all’opera in ogni pratica di scrittura. Quella sullo schermo è una scrittura virtuale poiché la scrittura avviene sulla memoria fisica come sequenza di bit, mentre quella che vediamo è solo una sua possibile interpretazione, ed essendo già la scrittura una pratica virtualizzante, la scrittura su video è quindi virtualizzazione del virtuale(4). Perciò riesce a evidenziare il nulla della raffigurazione: ogni incisione dello schermo attualizza un’infinità di rappresentazioni, ma è un’attualizzazione temporanea la cui differenza dalle altre è "nulla".

L’oggetto
Dopo aver analizzato il supporto ipertestuale veniamo agli oggetti dell’ipertesto: i programmi.

Per la nostra navigazione prendiamo l'esempio del programma immaginario Cicero formulato da Pierre Lévy in Le tecnologie dell'intelligenza [(1990) , pag. 38-39]. Cicero è un'opera enciclopedica sulla storia, la società, l'arte, la cultura, la tecnica degli antichi romani. Inizialmente si presenta disponendo sul nostro schermo una serie di icone. Esse rappresentano le modalità di esplorazione dell'opera: possiamo fare una consultazione cronologica dei periodi, oppure biografica dei suoi personaggi, o "sfogliare" i documenti lasciati dalla civiltà romana, o far cercare tutti i documenti in cui è citato un certo nome, o infine, come la studentessa dell'esempio di Lévy, seguire la visita guidata.

L'ipertesto è allora solo un raccoglitore di dati, una grande biblioteca digitalizzata che può essere tenuta in tasca? Una risposta banale potrebbe essere: «No, perché quando scelgo di visitare il teatro di Marcello, ho la mia guida virtuale che mi parla delle differenze tra l'architettura romana e quella greca, mentre sul video scorrono le immagini girate all'interno dell'edificio e dagli altoparlanti la voce di un grande attore drammatico interpreta una commedia di Plauto». A cui seguirebbe la domanda tecnica: «Ma allora bisognerebbe chiamarlo ipermedia o multimedia interattivo?»

Se imbocchiamo questa strada non raggiungeremo mai l'obiettivo di analisi filosofica che ci siamo prefissi. Questa deviazione potrebbe però rivelarsi non del tutto infruttuosa.

Proviamo a rispondere al perché ipertesto e non ipermedia. Lévy dà questa spiegazione: «Si sceglie qui il termine ipertesto, beninteso che questo non esclude affatto la dimensione audiovisuale. Entrando in uno spazio interattivo e reticolare di manipolazione, di associazione e di lettura, l'immagine ed il suono acquisiscono quasi uno statuto di testo.» [Lévy (1990), pag. 40]. Questa frase è illuminante, forse troppo in questo momento. Innanzitutto ci dice che l'ipertesto non è, a differenza di altre tecnologie informatiche come la computer graphic o la realtà virtuale(5), solamente una tecnica di riproduzione del reale o del più vero del reale(6) ma si caratterizza come testo, come operazione di scrittura e lettura, e anche come textum (tessuto), come intreccio di fili, di associazioni. L'ipertesto, quindi, utilizza caratteri iconici all'interno di una struttura testuale, articolata.

D’altra parte, Landow (1992) sottolinea come esista nella nostra civiltà dominata dalla stampa un problema terminologico rispetto al significato da associare al termine "testo" nei sistemi ipertestuali. E questo sotto due aspetti: in primo luogo il testo non è solo composto di parole; in secondo luogo il testo virtuale che compone un ipertesto non ha propriamente un "esterno" al testo e un "interno" al testo come lo ha intuitivamente un’opera o un documento cartaceo: files differenti e magari localizzati su hardware fisicamente distante mi appaiono sempre sul medesimo schermo.

Cosa comportino queste caratteristiche sarà compito della Logica dell'ipertesto comprenderlo.
Allora, quando ci domandano se l'ipertesto è solo una banca dati, come dobbiamo rispondere? Rispondiamo utilizzando ancora un'espressione di Lévy: «La memoria umana è così fatta che noi comprendiamo e riteniamo molto meglio quel che è organizzato secondo delle relazioni spaziali. [...] Il dominio di un campo qualsiasi del sapere implica quasi sempre il possesso di una ricca rappresentazione schematica. [...] Gli ipertesti dovrebbero dunque favorire, per più ragioni, un controllo della materia più facile e più rapido che con l'audiovisivo classico o con l'abituale supporto stampato». [Lévy (1990), pag. 47]

Ecco allora l’obiettivo dell'ipertesto, come dice Nelson, «creare nuove forme di scrittura che riflettano la struttura di ciò di cui scriviamo» [Nelson (1990), pag. 0/3], ma cos'è ciò di cui scriviamo? Una prima risposta che il senso comune potrebbe dare è: noi scriviamo di cose che accadono nel mondo. Ma subito sorgerebbe l'obiezione che si possono scrivere anche cose che non sono mai accadute (un uomo cammina sulla superficie solare) o che riteniamo impossibile accadano (mettendo insieme le tue due mele e le mie due, abbiamo cinque mele). Allora potremmo dire che quando scriviamo descriviamo "stati di cose", come direbbe Wittgenstein, se poi questi "stati di cose" siano veri o falsi è un altro discorso. Lo stato di cose "il bambino gioca a pallone" può essere scritto in diverse forme: possiamo farne un disegno, scriverlo alfabeticamente come ho appena fatto, o definirlo come una successione binaria di un particolare codice, giusto per fare degli esempi. Anche se, noi uomini alfabetizzati, quando diciamo scrivi "il bambino gioca a pallone" intendiamo scrivi le parole che pronuncerò, scrivi la mia voce. Ma se io posso pronunciare, scrivere, disegnare, codificare uno stato di cose è perché esso deve avere qualcosa di simile con tutte queste manifestazioni espressive. Cos'è questo qualcosa? Noi diciamo che il disegno, la parola, lo stato di cose (anche le cose, attenzione, sono una scrittura di mondo: per poter essere rappresentata la cosa dev’essere segno. «Ogni pratica di mondo è un disegno di mondo» ovvero «uno stato di cose disegna una situazione» [Sini (1994), pag. 27]) hanno lo stesso significato. Ovvero che c’è qualcosa di comune tra essi al di là della loro contingenza empirica. Wittgenstein direbbe: ciò che è in comune è l'immagine logica (immagine, in tedesco Bild, va intesa come Abbild: modello, forma) che però può essere solo esibita scrivendo, mostrata nel suo darsi, ma che non può essere detta, non ha un significato riproducibile, per dirla dovrei sempre utilizzare un'altra forma di raffigurazione, inoltrandomi in un gioco che rinvia all'infinito. L'autore austriaco nel Tractatus afferma, inoltre, che «l'immagine logica dei fatti è il pensiero».

Karl Popper (1997) parla di un Mondo 3 (il Mondo 1 è quello delle cose fisiche, il Mondo 2 quello delle esperienze consce e inconsce) costituito dai prodotti tecnici e artistici della mente umana ma anche da oggetti "autonomi", non fisici, quali le teorie. A proposito di quest’ultime Popper dice: «A volte le teorie contengono conseguenze che nessuno ha ancora scoperto sino a un dato momento, ma che tuttavia erano già lì, in senso logico, e potevano essere scoperte piuttosto che inventate (mentre la teoria aveva dovuto essere inventata almeno in parte). In ogni caso, un contenuto di pensiero può essere lì, in attesa di essere scoperto». [Popper (1997), pagg. 35-36].

Fermiamoci e valutiamo il percorso fatto. Ciò di cui scriviamo è il pensiero, ma non nel senso che i nostri scritti sono pieni di riflessioni sull'attività mentale. Pensiero sta qui a significare l'attività da sempre presente nell'uomo di farsi immagini del mondo, che vengono iscritte in gestualità e prassi peculiari: il significato, il contenuto. E d'altra parte sia Wittgenstein che Peirce sarebbero disposti a ribaltare la frase di Nelson dicendo che il pensiero riflette la struttura di ciò in cui pensiamo, specificando che ciò in cui pensiamo sono i segni, i grammata, la scrittura, gli usi, le prassi. Lévy asserisce che: «Noi esseri umani non pensiamo mai soli né senza strumenti. Le istituzioni, le lingue, i sistemi di segni, le tecniche di comunicazione, di rappresentazione e di registrazione strutturano profondamente le nostre attività cognitive: in noi pensa un’intera società cosmopolita.» [Lévy (1995), pag. 87].

Ma per Popper abbiamo visto che una volta inventata una teoria esiste una struttura oggettiva che attende di essere scoperta. L’autore austriaco fa l’esempio della sequenza dei numeri naturali che mostra come un’invenzione linguistica della mente umana ha bisogno di una dimostrazione, nel caso particolare quella di Euclide, per scoprire un suo contenuto oggettivo: l’esistenza di una infinità di numeri primi.

Siamo chiusi in un circolo: le tecnologie intellettuali sono prodotti del pensiero (della mente umana) che cercano di riprodurre la struttura del pensiero e quest’ultimo, pur essendo il prodotto di peculiari pratiche e tecnologie, sembra scoprire contenuti oggettivi. Per uscire dovremo rispondere alla domanda: che rapporti intrattengono il mondo e il pensiero? Ma in questo momento non abbiamo la presunzione di rispondervi.

Facciamo invece il punto della situazione: siamo partiti dicendo che l’oggetto dell’ipertesto sono i programmi, ovvero i codici informatici, infatti quando compriamo un CD-ROM quello che ci vendono è il contenuto: la sequenza di caratteri alfanumerici. Ma questi non ci interessano in sé ma perché verranno interpretati dal computer che ce li mostrerà come oggetti (immagini digitali, suoni di sintesi) dotati di significato. Quindi è al significato che noi miriamo, con tutte le implicazioni che questo comporta, come abbiamo visto sopra. Eppure il fatto che il significato si dia mediante gli oggetti informatici non può essere indifferente.

Quali sono le caratteristiche dell’oggetto informatico? Esso è immateriale, è un codice ma ha bisogno per produrre oggetti esperibili fisicamente di strumenti "pesanti" come i computer. Esempi sono la realtà virtuale, gli ambienti sintetici, il ciberspazio e Internet, ma anche l’augmented reality o l’arte generativa. In tutti questi campi si assiste o totalmente o in parte alla produzione di oggetti che, pur interagendo con noi, hanno la natura di codici, di linguaggi, che si possono modificare cambiandone la sintassi. Come il Verbo originario i linguaggi informatici hanno la capacità di creare esseri. Che tipo di essere è quello informatico, lo vedremo in seguito.

Ma la produzione di un oggetto mantiene inalterato il soggetto che lo produce? Oppure ci troviamo di fronte a quella che Simondon definisce una "relazione transductiva"? Ovvero «una relazione che costituisce i suoi termini, dove un termine non può precedere l’altro poiché essi non esistono che nella relazione» [Derrida, Stiegler (1996), pag. 183]? E se cosi è quale soggetto corrisponde all’evento dell’oggetto informatico? Per rispondere dobbiamo prima affrontare un’altra domanda: «Cosa cambia se l'ipertesto invece che su CD-ROM è in rete?»

Le reti informatiche

Le reti informatiche permettono la trasmissione a distanza di dati digitali, utilizzano per lo più la rete telefonica esistente e grazie a questo possono raggiungere una grande capillarità(7).

La rete dà quindi la possibilità di consultare milioni d'ipertesti che risiedono fisicamente su memorie poste a migliaia di chilometri, per questo Nicholas Negroponte in Essere digitali si sente autorizzato a parlare di mondo digitale in contrapposizione a quello degli atomi; dove sia la materia non ci interessa più, a noi interessa che arrivino i bit.

La rete serve allora per non tenersi in casa migliaia di CD? Anche, ma la sua caratteristica principale è quella di rendere possibile una continua apertura degli ipertesti verso l'esterno, verso la lettura e la scrittura, verso la creazione di nuovi collegamenti. Poiché «l’utente di CD-ROM gode di un’assoluta libertà di navigazione, purché le sue scelte siano quelle prestabilite dal programma» [Maldonado (1997), pag. 133].

Questo è uno dei motivi per cui i CD-ROM sono soprattutto efficaci per trasmettere saperi con un nucleo fortemente strutturato: il CD-ROM è stato sviluppato sinora come opera autosufficiente e poco interattiva con la rete, concettualmente esso è stato visto come un sostituto di più rapido utilizzo dell’enciclopedia, del consulted book, ma sempre all’interno della stessa ottica illuministica di classificazione dei saperi.

La rete invece non si limita alla riproduzione della mappa del sapere, l’informazione inserita in rete nonostante possa avere pretese di autoreferenzialità potrà sempre essere associata o chiosata dagli utenti della rete e inserita in innumerevoli percorsi dinamici e mutevoli. In questo senso la rete si apre a essere feconda anche in quei campi che necessitano di un’interpretazione dinamica e personale.

A ogni modo, proprio l’esperienza della rete ipertestuale sembra suggerire che non si tratti di preferire Internet al CD-ROM o quest’ultimo al libro, l’esperienza multimediale non è quella che condensa in un unico medium tutti gli altri (ipermedia), ma quella che riesce a costruire una rete tra i vari media per esaltarne le proprietà di ognuno(8).

Internet
Sinora l'esperienza più vasta di rete informatica è quella di Internet. Tentarne una fenomenologia può risultare superficiale, poiché gli argomenti e le tecniche di presentazione sono i più disparati. Per quanto riguarda le tecniche utilizzate per comunicare possiamo individuare delle tendenze. La scrittura alfabetica è ancora predominante, sia perché ci viene insegnata a scuola, sia perché servono meno bit per comporre i caratteri alfanumerici di quanti ne servano per digitalizzare un'immagine o un suono, e un numero maggiore di bit vuol dire usare più memoria per immagazzinarli e un tempo maggiore per spedirli o riceverli, con il risultato di un aumento dei costi economici.

La peculiarità di Internet sembra essere non tanto l’utilizzo di diversi media (la Web-TV non si è ancora affermata per esempio) ma l’accesso non lineare all’informazione e alla comunicazione che esso consente. Rispetto alla comunicazione televisiva o radiofonica del tipo uno-molti e a quella telefonica di tipo uno-uno, la rete sembra consentire una comunicazione molti-molti.

Analizziamo la non linearità dell’informazione. Dopo essere entrati nell'ambiente di Internet, per potervi spostare, sia che vogliate dare un'occhiata, sia che cerchiate qualcosa di particolare, dovete avere gli indirizzi. Esistono dei programmi, i cosiddetti motori di ricerca, che permettono di esplorare Internet rintracciando gli indirizzi collegabili a una o più parole-chiave. E qui nascono i problemi, perché i motori trovano migliaia di indirizzi ma come sapere anticipatamente dietro quali di essi si trovano i documenti che affrontano in maniera centrale e non di sfuggita l'argomento. Il fatto è che, tranne all’interno di singoli documenti, non c’è mai una mappa che si possa scrutare dall'alto, si hanno sempre più porte in cui entrare, come in un labirinto. Le mappe le costruiamo noi a posteriori trascrivendo i percorsi che abbiamo seguito. Ma nel mondo informatico che cartografiamo, quali oggetti? quali soggetti incontriamo?

Il soggetto on line
Noi conosciamo l’indirizzo, lo digitiamo, ci colleghiamo e sul nostro schermo appare una presentazione del sito informatico con cui siamo connessi. Sullo schermo incontro oggetti digitali multimediali: testi, foto, grafica, video, audio; qualcuno ha lasciato queste tracce, chi?

Il soggetto che incontriamo in rete è un soggetto privo di corpo che si può presentare come scrittura, come voce, come immagine. Corpi digitali: scritti, video, foto, suoni, ipertesti. L’Altro soggetto mi si presenta senza corpo fisico con un corpo digitale e anch’io mi presento a lui in questa veste. Nel caso della voce questo avviene anche per il telefono, il soggetto telefonico non è mai annusabile, la sua presenza si limita alla miniaturizzazione della voce. Ma già il soggetto letterario, come ben sapeva Platone, è privo di corpo. Una parte del pensiero occidentale ha considerato il corpo come un possesso del soggetto (dell’anima, dell’Io), se così fosse un soggetto senza corpo sarebbe un soggetto più "puro".
Analizziamo cosa succede al nostro corpo quando "navighiamo", vediamo se è vero che viene abbandonato. Innanzitutto occorre dire che il nostro corpo fisico partecipa attivamente davanti al monitor, non solo perché le nostre mani digitano o muovono il mouse durante la navigazione, ma perché «è il tubo catodico a "leggere" noi. Le nostre retine sono il bersaglio diretto del fascio di elettroni.» [De Kerchove (1995), pag. 61]. Non si legge infatti un monitor sequenzialmente come un libro, ma per occhiate veloci, per colpi d’occhio. Il corpo non viene quindi abbandonato, anzi durante la navigazione viene investito da numerosi stimoli, costituendosi come interfaccia imprescindibile tra noi e la macchina. Scrive Maldonado: «Il corpo umano è un oggetto di conoscenza. Infatti, il modo di essere consapevoli del corpo appare intimamente legato alla conoscenza, che in ogni epoca, abbiamo avuto della nostra realtà corporale. Ma non solo: oltre che oggetto di conoscenza, il corpo è stato anche un soggetto tecnico, un punto di riferimento fondamentale della nostra operosità tecnica» [Maldonado (1997), pag.140]. Il corpo è quindi ben lontano dall’essere abbandonato, ciò nonostante nella comunicazione in rete il soggetto si presenta separato da esso e l’incontro con l’Altro è sganciato da un contatto fisico con il suo corpo. Anche se mi invia le sue video immagini, mi trovo di fronte sempre a un corpo digitale, a una simulazione elettronica, a una icona. L’odore non passa nella rete.

Viene perciò relegato in secondo piano il linguaggio gestuale del corpo; ma questo, si dirà, avviene anche con lo scambio epistolare o con il contatto telefonico. La questione è che ciò avviene alla velocità telefonica e non solo tra due soggetti. Abbiamo infatti scritto riguardo alla rete che si tratta di comunicazione molti - molti, ma è poi così? La comunicazione è veramente molti-molti? Analizziamo l’esperienza delle cosiddette comunità virtuali [sull’argomento vedi Rheingold (1993)] che spesso si formano attorno a dei gruppi di discussione (newsgroup) su specifici argomenti. I newsgroup possono essere interpretati come ipertesti se li analizziamo come l’intreccio rizomatico di soggetti virtuali attorno a un tema. In rete il soggetto è sempre problematico: «Il comunicatore è distaccato dall'oggetto della sua comunicazione. Cioè, tu vedi comparire una frase e questa frase contiene dei segnalatori di identità che possono essere falsi, che possono non corrispondere alla realtà del comunicatore. Per cui io in rete posso presentarmi come una donna o posso presentarmi come un afro-americano, posso presentarmi come un cinese. Ora, quando l'agente della comunicazione può mascherarsi, è chiaro che l'informazione, può diventare più indefinibile, imprecisa. Ma è anche vero il contrario: e cioè che il contesto, nel quale la comunicazione si svolge, può divenire un contesto più ricco, più ambiguo e dunque capace di aprire prospettive più ricche di quelle che si determinano nella comunicazione comune, faccia a faccia. Finalmente la smettiamo di prenderci sul serio, finalmente la smettiamo di credere che le nostre parole sono pietre, che la storia è fatta di parole, che le parole son fatte di storia.» [Berardi (1996)].

Tomàs Maldonado nel suo Critica della ragione informatica individua nella chiacchiera informatica un pericolo per la società democratica. La questione è come viene modificata l’identità dalla frequentazione della rete, dobbiamo parlare di soggetti ipertestuali?

L’identità di ognuno (l’Io) va vista «come una scena in cui s’interpretano diversi ruoli in un complesso gioco delle parti» [Maldonado 1997, pag. 56]. Berardi diceva che posso presentarmi come donna o cinese. Per Maldonado la comunicazione in rete è rischiosa perché può produrre dei soggetti illusori e parziali che non portano nella discussione tutte le loro contraddizioni: soggetti che giocano ma non si mettono in gioco. Perciò la democrazia, in quanto agire razionale e deliberativo, è messa in discussione. Il processo di formazione della verità pubblica è più farraginoso perché maggiori sono le informazioni da esaminare e sempre più piccole sono le comunità. In rete rispondere alla domanda «Chi parla?» non è più essenziale, l’informazione non ha bisogno di certificati di paternità. Per Berardi questo non è necessariamente negativo: «La politica, tradizionalmente, nelle epoche passate, durante la modernità, era un esercizio di decisione, di scelta, su alternative che si presentavano con chiarezza. Oggi noi ci troviamo nella situazione di non potere più decidere, perché non siamo più in grado di valutare in successione, criticamente, l'informazione che raggiunge il nostro organismo individuale e collettivo. Dunque: fine della riflessione, fine della decidibilità, fine della politica. Questa è probabilmente la direzione nella quale andiamo. Dobbiamo abituarci all'idea che le scelte che noi stiamo compiendo e compiremo, non dipendono più né dalla critica, né dalla decisione, né dalla politica. Da cosa dipendano ancora non lo sappiamo. Il problema è che l'ozio non è soltanto una necessità per il lavoro intellettuale, per la conoscenza, ma è probabilmente la forza produttiva principale, la forza creativa principale per la conoscenza. Ora, quando la conoscenza viene sottoposta alle leggi, ai ritmi, alle necessità della macchina capitalistica, la conoscenza finisce di essere quello che abbiamo sempre saputo, quello che essa è per la sua stessa natura, e comincia ad essere reazione ad uno stimolo che proviene dall'esterno, comincia ad essere ripetizione, una sorta di attività eterodeterminata. E che proprio coloro che sono stati all'avanguardia nella ricerca informatica, telematica, nella ricerca di rete, oggi mettono in guardia contro il pericolo di identificare creatività e coscienza con la elettrocuzione permanente, con questa sorta di collegamento costante, di messa in rete dei cervelli continuativa. Ecco, interrompiamo la connessione, se è possibile. Avremo tutto da guadagnarci.» [Berardi (1996)]

Sembra allora che la comunicazione avvenga tra molti-molti ma questi molti sono soggetti differenti da quelli dell’agorà, soggetti la cui identità è sempre una singolare prospettiva, in cui puoi vedere solo l’angolazione che l’altro decide, e in cui i soggetti decidono di scambiarsi informazioni senza assumersene necessariamente la paternità.

Ma questo nuovo soggetto, soggetto "ico-ironico", soggetto a un ruolo, che ha ancora bisogno del corpo ma il cui corpo non incide più sulla determinazione della sua identità, quanto è "nuovo"? in quale dialettica è iscritto con il suo oggetto?

Teniamo da parte queste domande per quando affronteremo il concetto di esperienza e di attività cognitiva.

Riepilogo

Praticando l'ipertesto abbiamo scoperto che esso è una struttura articolata associabile a una rete. Una rete è funzionalmente composta da due entità: i nodi e i collegamenti.

Nell'ipertesto i nodi sono rappresentati da ciò che viene prodotto (detto, mostrato): dai significati, dalle identità. I collegamenti sono invece parole o icone che fungono da interfacce tra nodi, esse rinviano ai significati, operano il passaggio, il loro valore è nello stare per. Esse non dicono, indicano.

Sono dunque confermate le anticipazioni iniziali: l'ipertesto è una rete d'interfacce e di significati. Ciò consente:
- più possibilità di fruizione (diversi modi di lettura),
- più possibilità di composizione (si può "scrivere" utilizzando altri media oltre alla scrittura alfabetica),
- più possibilità di connessione (il rinvio a un altro ipertesto in rete è quasi immediato).

Riassumendo:
- il supporto dell’ipertesto è costituito da una serie d’interfacce; analizzando quella con cui interagiamo: lo schermo, abbiamo visto che esso ha la capacità di evidenziare il carattere virtuale dell’atto di scrittura che avviene su qualsiasi cartiglio;
- i programmi ipertestuali mirano a cogliere la struttura di ciò di cui scriviamo: il pensiero inteso come produttività semantica;
- la rete ipertestuale produce un soggetto desomatizzato fisicamente nell’incontro con l’Altro e risomatizzato nei personaggi virtuali che interagiscono in modo multidirezionale nel ciberspazio.

Alla nostra ricerca per il momento può bastare questa fenomenologia, vediamo ora di rispondere alla domanda sull'evento dell'ipertesto: quale intreccio di pratiche precedenti ha portato alla sua comparsa? e da cosa deriva la sua originalità? Le risposte non potranno derivare che da una genealogia dell'ipertesto.



Genealogia dell'ipertesto
Quella che qui ci proponiamo di scrivere non è una storia dell'ipertesto, bensì una sua genealogia. Vogliamo individuare e analizzare l'orizzonte (il contesto) che ha reso possibile il manifestarsi di questa nuova tecnologia. Ho individuato tre campi genealogici: l'informatica, che rende possibile il famoso «schermo interattivo», la scrittura, siccome sappiamo che si tratta di un'iper-testo, e infine il pensiero, poiché esso è l'oggetto delle tecnologie intellettuali.
Questa genealogia dell'ipertesto consta, perciò, di tre parti.
L'informatica: interazione conviviale e numerizzazione.
La scrittura: alfabeto, stampa, letteratura.
Il pensiero: dal teatro della memoria alla società della mente.




L'informatica: interazione conviviale e numerizzazione
Iniziamo con una citazione di Pierre Lévy. «Binaria l'informatica? Senza dubbio, a un certo livello di funzionamento dei suoi circuiti, ma è chiaro oggi che la maggioranza degli utenti non sono più in relazione con quella interfaccia. In cosa un programma d'ipertesto o di disegno è da definirsi binario?» [Lévy (1990), pag. 113].

Sopra viene detto che la struttura microscopica dell'informatica, quella dei circuiti, è binaria ma i suoi effetti macroscopici, i programmi ipertestuali per esempio, non lo sono. Occorre quindi comprendere come si sia potuti passare dalla programmazione in codice binario delle tonnellate di valvole del primo calcolatore: l'Eniac degli anni quaranta, alla maneggevolezza dei moderni PC portatili e alle potenzialità del loro software? Questo è avvenuto, direbbe Lévy, perché «i calcolatori sono delle reti di interfacce aperte su connessioni nuove, imprevedibili, che possono trasformare radicalmente il loro significato ed il loro uso» [Lévy (1990), pag. 113]. Sempre l'autore francese individua nell'interazione conviviale ciò che ha reso possibile la produzione e la fruizione di forme di scrittura non sequenziale come gli ipertesti.

L'interazione conviviale

Lévy definisce i seguenti come princìpi dell'interazione conviviale:
« - la rappresentazione figurata, diagrammatica o iconica delle strutture di informazione e di comando (per opposizione a delle rappresentazioni codificate o astratte);
- l'uso del "mouse" che permette di agire su quello che accade sullo schermo in maniera intuitiva, sensori-motrice piuttosto che attraverso l'invio di una sequenza di caratteri alfanumerici;
- i menu che mostrano in ogni istante all'utente le operazioni che egli può compiere;
- lo schermo grafico ad alta definizione. » [(1990), pag. 43]
Riformuliamo allora la domanda precedente: come si è passati dal codice binario degli inizi all'ambiente interattivo che costituisce l'odierno uso dei personal computer?

Storia dell'interazione conviviale

Per osservare come l'interazione conviviale sia diventata una caratteristica peculiare dei calcolatori, Lévy [(1990), pag. 50-58] si avvale dell'esempio fornito da Jeffrey Young (1987) nella descrizione del caso Apple.

L'Apple fu fondata a metà degli anni Settanta da Steve Jobs e Steve Wozniak, due giovani statunitensi di San Francisco influenzati dal high tech della vicina Silicon Valley e dalla controcultura proveniente dal campus di Berkeley.

I computer venivano allora venduti in pezzi staccati senza monitor né tastiera. Nel 1975 Apple I, invece, veniva venduto già assemblato; nella seconda versione venne aggiunto un lettore di cassette che permetteva di caricare il linguaggio di programmazione. In Apple 2 quest'ultimo era cablato in una memoria morta interna, inoltre era possibile collegare il computer allo schermo di un televisore standard a colori che sarebbe servito da monitor. Dopo il 1976 Apple 2 venne venduto fornito di presa, di tastiera e di conchiglia di plastica per proteggere i circuiti.

Per i suoi creatori queste interfacce erano solo dei supplementi pubblicitari, una strizzata d'occhio a nuovi settori di mercato. E d'altra parte «cosa è la pubblicità, se non l'organizzazione di una relazione, di una interfaccia con il pubblico? [...] Si tratta sempre, per connessioni e traduzioni, di estendere la rete sociotecnica che passa attraverso la macchina» [Lévy (1990), pag. 54].

Continuiamo a osservare lo sviluppo di Apple. Alla fine degli anni Ottanta il lettore di dischi disegnato da Wozniak rese possibile ai microcomputer di utilizzare una capacità di memoria infinitamente superiore a quella delle cassette. Ciò portò i programmatori a produrre su Apple 2 e i consumatori ad equipaggiarsi del computer per il quale era concepita la maggior parte dei programmi. Nel 1979 apparvero i primi programmi di trattamento testi e anche il primo tabulatore.

L'altra tappa che rivoluzionò la fruizione dell'informatica fu l'apparizione del Macintosh di Apple nel 1984, che seguì l’uscita del computer Lisa. Si trattò di una miscela di tratti d'interfaccia e di dettagli precedenti in cui furono inseriti l'uso delle icone e quello del mouse sviluppati nei laboratori del Palo-Alto Research Center della Xerox. Tutto ciò però non bastò per il futuro del Macintosh che rischiò di fallire commercialmente, se l'introduzione sul mercato di stampanti laser a basso prezzo non l'avesse reso parte di una catena di pubblicazione assistita per calcolatore.

Ma Lévy [(1990), pag. 59] ricorda che le idee dell'interazione conviviale erano precedenti all'attività della Apple e della Xerox. Douglas Engelbart, direttore dell'Augmentation Research Center (ARC) di Stanford, a partire dalla metà degli anni cinquanta, aveva sperimentato per la prima volta:
- lo schermo a finestre multiple;
- la possibilità di manipolare con l'aiuto del mouse dei complessi informazionali figurati sullo schermo con un simbolo grafico;
- i legami associativi (ipertestuali) tra banche dati o tra documenti scritti da autori diversi;
- i grafi dinamici per rappresentare delle strutture concettuali (il trattamento di idee);
- i sistemi di aiuto all'utente integrati nei programmi.
Tutte queste interfacce dovevano servire a programmi per la comunicazione e il lavoro cooperativo detti oggi groupware.

Abbiamo visto come la nascita dei personal computer sia frutto di una serie di interfacce "cieche" (i loro creatori non conoscevano le trasformazioni che esse avrebbero implicato) che finivano con il ridefinire il significato della macchina.

Interfaccia e genealogia

Prima di proseguire vorrei fare una considerazione. Il concetto d'interfaccia può essere molto utile in genealogia. L'interfacciare è l'attività di creare connessioni tra due tecniche o pratiche appartenenti a circuiti diversi, con genealogie diverse; questi interventi esterni non si limitano ad accoppiare ma traducono, trasformano i significati iniziali. «In una rete sociotecnica, come in un ipertesto, ogni nuovo legame ricompone la configurazione semantica della zona della rete in cui si annoda » [Lévy (1990), pag. 58]. L'operazione genealogica è allora quella di individuare su cosa si fondino i significati attuali e come essi abbiano modificato quelli passati.

La numerizzazione

I più accorti potranno dire: «Va bene, storicamente è andata così, ma resta da spiegare la possibilità della codificazione numerica, perché da lì l'informatica parte (00111010101..), di farsi icona?» La risposta meriterebbe un'ampia ricerca, dovremo accontentarci di alcuni spunti.

«La codificazione numerica respinge il sema dei materiali in secondo piano. [...] Il numerico è una materia, se vogliamo, ma una materia pronta a subire tutte le metamorfosi, tutti gli avvolgimenti, tutte le deformazioni» [Lévy (1990), pag. 114].

Analizziamo la prima affermazione. In essa si dice che la numerizzazione comporta una «dematerializzazione della nostra realtà», questa espressione è al centro di Reale e virtuale [1992] di Tomás Maldonado. L'autore centra la sua analisi sull'attendibilità della teoria che prospetta, per l'appunto, una graduale dematerializzazione della realtà. Potremmo dire brevemente che le tecniche di riproduzione iconiche in Occidente, dalla prospettiva al trompe-l'oeil, hanno sempre ricercato di riprodurre l'immagine nel modo più realistico, cercando di appropriarsi dell'immagine speculare. Il raggiungimento di questa alta fedeltà, di questa perfezione dell'illusione, ha segnato anche l'ora della disillusione. «Il conseguimento di un assoluto realismo figurativo rafforza e al contempo indebolisce il nostro rapporto con il reale.»(9) [Maldonado 1992, pag. 49].

Qual è però il contributo peculiare che dà la numerizzazione, digitalizzando l'immagine, nel respingere il sema dei materiali rispetto, per esempio, alla fotografia? Digitalizzare un'immagine consiste nel ridurre la forma iconica a una griglia di unità atomiche dette pixel. Ogni pixel porta con sé un'informazione sul proprio colore, la propria luminanza e così via; informazioni che a livello microscopico sono formate da una serie di impulsi binari: c'è tensione (1), non c'è tensione (0). Queste informazioni possono essere memorizzate in poco spazio, trasportate, e lette da un altro elaboratore che utilizzi lo stesso codice. E non solo, posso modificare quelle informazioni e far sì che nell'immagine il tetto della mia casa sia colorato di verde o che dalla finestra mi saluti un cavallo che sta bevendo un té, basta variare i valori di determinati pixel. Tutto ciò potrò poi stamparlo, proiettarlo o fruirlo come meglio credo. Queste operazioni svincolano dalla "pesantezza" fisica della pellicola fotografica: facilmente danneggiabile e difficilmente manipolabile. (Questo non vuol dire che non abbia più senso fotografare, d'altra parte si è continuato a dipingere anche nell'epoca delle istantanee e delle videocamere).

Secondo Philippe Quéau, scrittore di analisi estetiche e filosofiche nel campo delle immagini computerizzate, della realtà virtuale e del ciberspazio, la numerizzazione, in quanto trattamento digitale dell’immagine, è la prima tappa di quella che lui definisce la rivoluzione virtuale. Dice Quéau: «L'immagine ormai può essere generata per mezzo di operazioni linguistiche astratte. Con il digitale ormai l'immagine è diventata un linguaggio non in senso metaforico, ma nel senso stretto della parola. È questa la rottura fondamentale in rapporto con le tecniche del passato. L'immagine digitale è innanzi tutto una scrittura: si scrivono delle immagini battendo su una tastiera. Non è una metafora. Non è tanto la metafora dell'immagine come scrittura nel senso vago dell'espressione, è veramente la possibilità giocare con le immagini come si gioca con gli aggettivi, con i verbi, con le parole. È proprio questo che si fa, quando si programmano delle scene, quando si creano, a partire da manipolazioni linguistiche, dei mondi virtuali. Finora le immagini, l'immagine del pittore, l'immagine del cineasta, l'immagine del fotografo, l'immagine del "videasta" o, se si preferisce, della televisione, partecipavano della materialità del mondo. Il pittore manipola dei pigmenti. Si stabilisce dunque un contatto tra la volontà del pittore e una materialità che gli oppone resistenza. Il fotografo, come il cineasta o il "videasta" gioca con dei fotoni. Ci sono dei fotoni che vengono a imprimersi su una superficie fotosensibile, che si tratti della gelatina fotochimica, del tubo elettronico della videocamera o della pellicola cinematografica. In tutti i casi l'immagine un tempo era legata alla materialità, alla concretezza del mondo reale. Con l'immagine virtuale, con l'immagine di sintesi, non sono più dei fotoni o dei pigmenti che creano l'immagine, ma delle pure operazioni linguistiche. E in questo modo l'immagine appartiene interamente al regno del linguaggio. Questo è assolutamente fondamentale, in senso buono e in senso cattivo. In senso buono ci offre la libertà del linguaggio, la sovrana libertà dell'espressione, separata da ogni rapporto con il reale; in senso cattivo l'inconveniente è che proprio perché è privata di ogni relazione con il reale ne perde il sostanzioso midollo». [Quéau (1995)]. Avremo tempo per ritornare sul tema del linguaggio.



La materia del numerico
Veniamo alla seconda affermazione di Lévy. Il numerico allora è una materia? di che tipo? Ovviamente per chiunque creda che esso provochi una dematerializzazione della realtà, la sua caratteristica sarà quella di intaccare la materia di cui è composta la sostanza reale, di trascendere la materia per arrivare alla pura forma, di trascrivere desomatizzando. L'autore francese invece dice che è una materia, ciò gli è indispensabile per il suo progetto di fondazione immanente e molecolare della rete sociotecnica a partire dal basso, ma questo aspetto non verrà affrontato ora.

Materia, sì, ma particolare, perché disposta a subire tutte le trasformazioni senza opporre resistenza. Sempre nella stessa pagina, infatti, Lévy continua dicendo: «Il fluido numerico è come composto di una moltitudine di piccole membrane vibranti ciascuna, in quanto ogni parte è già una interfaccia, capace di rovesciare un circuito, di passare da sì a no secondo le circostanze. L'atomo di interfaccia deve avere già due facce.» L'atomo d'interfaccia è il bit.
«Un bit non ha colore, dimensioni o peso, e può viaggiare alla velocità della luce. È il più piccolo elemento atomico del DNA dell'informazione. È un modo di essere: sì o no, vero o falso, su e giù, dentro o fuori, nero o bianco. Per praticità noi diciamo che un bit è 1 o 0. Che cosa significhi l'1 o lo 0 è un altro discorso.» [Negroponte (1995), pagg. 3-4]. Questo è il potere del bit: essere neutrale all'informazione; la stessa sequenza di bit può trasportare indifferentemente il valore di un'onda radio o quello di un livello di grigio, per che cosa stia saranno gli altri messaggi del contesto a deciderlo. Con le parole di Sini [1994, pag. 192]: «La scrittura matematica non scrive il significato, ma il puro evento privo di significato».

«L'emergere della continuità da un insieme di pixel è analogo a un fenomeno che si verifica, su scala ben più ridotta, nel mondo della materia che ci è familiare. La materia è fatta di atomi. Se potessimo osservare ad una scala subatomica una superficie metallica estremamente levigata vedremmo soprattutto dei buchi. Ci appare liscia e compatta perché i singoli pezzi sono estremamente piccoli. Altrettanto avviene per un'immagine digitalizzata.» [Negroponte (1995), pag. 5]. Il numero, il bit, costituisce l'atomo, l'unità, l'indivisibile dell'informazione. L'immagine digitale è il farsi numero del segno. Il segno diventa l'effetto macroscopico di un'essenza digitale a livello microscopico. Ma queste due concezioni, un mondo reale e un mondo segnico dagli effetti analogici ma composti di entità atomiche discrete (e quindi riproducibili), quali fondamenti hanno? perché le possiamo pensare?

Atomi e lettere

Una fisica atomica (così come ogni scienza moderna) è concepibile solo in una cultura alfabetica. La scrittura alfabetica raffigurando l'invisibile della voce «mira all'inaudito e all'inaudibile del detto, cioè al significato logico delle parole» e può fare questo grazie alla «operazione idealizzante della linearizzazione per elementi puri». [Sini (1992), pag. 101-103]. E se la caratteristica di atomi e bit è quella di essere elementi puri, la loro genealogia va ricercata in quei primi elementi puri che sono le lettere. Occorre allora analizzare l'accadere della prassi alfabetica per capire in quale logica e metafisica si sia innestata (interfacciata) la scrittura matematico-informatica.

Riepilogo

Tiriamo le fila di questa prima parte di genealogia che potremmo chiamare genealogia informatica dell'ipertesto.

- L’interazione conviviale è la tecnica informatica capace di mettere a disposizione la ricchezza di soluzioni che permettono la realizzazione e la navigazione di un programma ipertestuale.

- Essa è il frutto di una serie d'interfacce che hanno ridisegnato il significato delle macchine precedenti.

- La capacità d'interfacciare e di raffigurare dell’informatica è costituita dalla sua natura binaria a livello atomico, poiché la materia numerica è neutrale all’informazione.

Ma perché parliamo di livello atomico? Si è individuata nella pratica alfabetica l'apertura di un mondo atomico.



La scrittura: alfabeto, stampa, letteratura
Veniamo dunque alla scrittura, d'altra parte si era definito l'ipertesto come scrittura non sequenziale. Definirlo in questo modo vuol dire intendere che esso non segue uno sviluppo lineare, la linea è infatti una sequenza di punti. Ma la scrittura è lineare? e se sì, in cosa consiste la sua linearità?

Dalla semasiografia all'alfabeto greco

Nelson, come abbiamo visto, sostiene che la scrittura sequenziale sia un caso particolare d'ipertesto, e quest'ultimo sia la forma più generale di scrittura, noi aggiungiamo che la scrittura è stata per molto tempo non sequenziale, non lineare, per poi diventare lineare con l'alfabeto greco. Cerchiamo di spiegarci, le forme di scrittura prealfabetiche: dalla semasio-grafia ai sillabari semitici, attraverso i sistemi logo-sillabici, possono essere viste solo da noi come forme di avvicinamento all'alfabeto, ma per i loro utenti esse rappresentano una mimesis, una raffigurazione sensibile della cosa, la lettura è una pratica di divinazione, un'intrattenersi con la cosa. Questa è la sapienza arcaica a cui Cratilo anela e che Socrate, in una società alfabetizzata, può cancellare. E anche nei sillabari semitici dove si tenta una compiuta mimesis della voce, si riesce a trascrivere solo la Voce monumentale, come la definisce Havelock(10) (resta da dimostrare la necessità per lo scriba semita di scrivere altro). La tesi dell'epigrafista americano Kevin Robb(11) è che l'introduzione delle vocali da parte dei greci sia dovuta al fatto che la loro poesia, la loro Voce monumentale, era scritta in metri, e il carattere breve o lungo delle sillabe era in funzione della successione delle vocali. I greci istituzionalizzarono allora un espediente che i semiti usavano quando dovevano determinare il carattere vocalico della sillaba (ma un carattere vocalico esiste solo dopo la pratica greca): le matres lectionis.



L'evento della scrittura alfabetica
Ho proposto una genealogia della scrittura alfabetica molto sintetica, quello che a noi interessa è come in essa avvenga la linearizzazione della voce e quali conseguenze questo comporti.

Voce e scrittura
«Si tratta di ripercorrere la via che da una scrittura plastica ha condotto a una scrittura lineare, trasformando in tal modo la voce evocativa in voce alfabetica.» [Sini (1992), pag. 89] La parola epica è caratterizzata dal continuo provenire e rinviare ciclicamente. È sempre un interpretare, un dare senso legato a un pathos partecipativo. Quella alfabetica è invece apatica, composta di elementi ideali che stanno per significati oggettivi e universali iscritti su una linea omogenea - tutti, anche lo schiavo, possono leggere correttamente, ma nella parola epica non era in gioco la correttezza bensì la giustezza ai fini dell'azione-.

Quello che c'è da comprendere è che non esiste una mente che parla alfabeticamente, prima, e che decide, in seguito, di scrivere la propria voce; la voce e la mente alfabetica sono il prodotto dell'iscrizione della pratica alfabetica, non vi sussistono. Anche se la scrittura alfabetica, come ogni forma di rappresentazione iconica, può nascere solo in una comunità di parlanti: non c'è sapere senza voce, non c'è fenomeno, non c'è soggetto(12), ma l'analisi dell'evento della voce ci porterebbe lontano.

Punto e linea
Noi diciamo che l'alfabeto traduce la voce. Attenzione, non la riproduce empiricamente. Esso la scompone in elementi ideali: le lettere (o fonemi) e la iscrive nella sequenza lineare. Questa operazione ha la conseguenza di produrre una voce "pura": non ambigua. La voce così scritta viene poi letta mirando al significato ideale, non più un'interpretazione sinestetica, ma una separazione sensoriale: la vista esplora la superficie d'iscrizione alla ricerca dei significati.

Dunque la scrittura alfabetica linearizza la voce riducendola a una sequenza di elementi: le lettere; esse sono il frutto di pratiche iconiche precedenti: si caratterizzano come pitture decadute(13), non rappresentano più interpretazioni mondane, ma astraggono la voce iscrivendola linearmente. Questa operazione modifica la voce che viene desomatizzata e resa logica. Le lettere dell'alfabeto non intrattengono più nessun rapporto con le cose: il loro valore e la loro definizione sono dati dalla differenza rispetto alle altre (A cioè non-B, non-C, e così via). Da cui la produzione di un significato logico: la voce linearizzata nella sequenza puntuale assume un valore astratto dalle gestualità sinestetiche, non più un dire con ma un dire di; il punto della linea (la lettera) annulla il proprio senso per rendersi trasparente alla voce che viene così iscritta uniformemente e univocamente. La frequentazione di questa pratica produce l'apparire di una mente logica che definisce, ovvero scrive, degli schemi logico-definitori che producono le idealità: la suddivisione del mondo in enti. Come la pratica alfabetica riduce la ricchezza dell'emissione vocale a pochi fonemi, così la pratica della mente logica riduce il movimento della molteplicità mondana iscrivendo gli eventi in uno schema classificatorio basato sull'esclusione e l'inclusione. Questi princìpi sono all'opera nell'alfabeto: A non può essere A e non-A, mentre nel geroglifico può esserci compresenza di dio e uomo. La parola CANE non include solo le lettere C, A, N, E ma anche le sillabe CA e NE e la CA viene prima, per cui CNAE o NECA non sono equivalenti perché quel che conta è l'implicazione lineare degli elementi, mentre nelle scritture logo-sillabiche è l'insieme dei grafi che va interpretato e non tanto la loro sequenza.

Riassumendo potremmo dire che la scrittura alfabetica compie un'operazione di desomatizzazione della voce che viene ridotta a successione di punti-ora e nello stesso tempo la risomatizza convenzionalmente nella linea scrittoria. Fondazione metafisica di un invisibile (la voce pura) tramite segni sensibili (le lettere) che rinviano a un ultrasensibile («qui che proviene-promana dall'oltre») che non occorre pronunciare ma di cui va compreso lo schema topologico: il significato. Noi siamo ancora consegnati a quel gesto tanto è vero che per descriverlo abbiamo utilizzato dei concetti che altro non sono che un suo peculiare prodotto.

La scrittura-lettura alfabetica, producendo le idealità e la loro organizzazione sapienziale secondo lo schema della definizione logica, introduce il concetto di universalità: la voce pura è per tutti, non è ambigua, non viene lasciata all'interpretazione della tradizione. Da qui lo sguardo oggettivo-razionale e quello storico-critico. Il tempo diventa lineare: riproduce la successione dei punti-ora; nello stesso punto e nello stesso istante: o A o B.

Il fatto è che «la linea non può raffigurare il movimento che la costituisce», il passaggio da un punto all'altro non può essere pensato, definito linearmente, così l'essere soprasensibile non può essere delimitato. Il soprasensibile trascende il sensibile, non perché sia originario e noi non siamo mistici in grado di sentire l'inaudito, bensì perché essi sono il frutto della stessa prassi scrittoria e non si può dare l'uno senza l'altro, poiché l'apparire dell'uno assegna i confini all'altro.

Per ulteriori approfondimenti sull'evento della scrittura alfabetica, rimando alle analisi formulate da Carlo Sini in Etica della scrittura [1992].

Dallo scriba alla stampa

Noi ora ci dimenticheremo del segreto che porta con sé la scrittura alfabetica; una volta istituito il gesto idealizzante della pratica alfabetica cade nell'oblio e si scrive, si legge. In alcuni periodi queste attività sono appannaggio di pochi, per esempio dei monaci nei secoli dell'Alto Medioevo, poiché inizialmente non vi è separazione tra le parole, il testo è scritto su lunghi e pesanti rotoli e la lettura avviene a voce alta.(14)

Grazie alla precedente opera di trascrizione e conservazione dei testi da parte degli amanuensi, nel XV secolo gli umanisti riscoprono molti testi dell'antichità. In questo clima di attenzione per le "lettere", appare un'interfaccia che segnerà il destino della scrittura sino al nostro secolo e della quale molto è debitore l'ipertesto: la stampa.

L'invenzione della stampa non consente semplicemente la moltiplicazione delle copie. Essa «è anche l'invenzione in qualche decina d'anni, di una interfaccia normalizzata estremamente originale: pagine del titolo, testa del capitolo, numerazione regolare, tavola degli argomenti, note, riferimenti incrociati» [Lévy (1990), pag. 41]; tutto ciò permise una serie d'azioni differenti rispetto a quelle consentite dal manoscritto: «possibilità di sorvolo del contenuto, accesso non lineare e selettivo al testo, segmentazione del sapere in moduli, connessioni multiple su una folla di altri libri grazie alle note in fondo pagina ed alle bibliografie.» [Lévy (1990), ibid.]. Queste peculiarità della stampa hanno influito e reso possibile l'evento della scienza moderna e l'organizzazione del sapere in modo cumulativo e sistemico. Ed è difficile immaginare un'opinione pubblica nell'età moderna senza stampa.

Ma se già la stampa permette l'accesso «non lineare e selettivo al testo» in cosa consiste la peculiarità dell'ipertesto? Nella velocità. «La quasi istantaneità del passaggio da un nodo all'altro permette di generalizzare e di utilizzare in tutta la sua estensione il principio di non-linearità» [Lévy (1990), pag. 44]. Questo comporta una metamorfosi della lettura che diventa navigazione.

Editoria di bit

«Questa è un idea audace e radicale: una forma nuova di lettura e di scrittura, simile alla vecchia (ma più veloce), con citazioni, estratti e note a margine. E che si evolverà con l'uso in una vasta rete navigabile, in una nuova letteratura.» [Nelson (1990), pag. 2/41]. L'idea audace di cui Nelson parla è il suo progetto Xanadu. Nelson vorrebbe costituire una rete ipertestuale che possa realizzare lo scenario ipotizzato nel 1946 da Vannevar Bush in As we may think(15). Bush, da buon ingegnere, poneva una questione essenzialmente pragmatica: come risolvere quello che lui definiva «il problema della selezione»? Ovvero come reperire le informazioni che cerchiamo in una società che ne produce e ne archivia in numero sempre maggiore? Per Bush era necessario modificare il modo di classificazione e seguire il metodo che utilizza anche la nostra mente, ossia «selezione per associazione, invece che per indicizzazione»; perciò propose il Memex: un sistema di archiviazione di tutti i documenti su supporti magnetici basato non su ordini alfabetici o numerici ma su associazioni tra testi, che potevano essere fruiti da una scrivania composta da schermi traslucidi.

Secondo Landow (1993, pag. 20) due sono le intuizioni di Bush che trasformano la stampa in ipertesto: riconfigurare «la lettura come un processo attivo che coinvolge un’attività di scrittura»; «pensare il testo come qualcosa di virtuale, piuttosto che fisico». La «caratteristica fondamentale del memex» resta però nelle capacità «d’indicizzazione associativa», ovvero nella costruzione di piste di collegamento tra informazioni, nella creazione di legami tra nodi in quella che noi chiameremmo una rete ipertestuale.
Nelson, con il suo progetto Xanadu, si ispira senz’altro a Bush, sostiene infatti: «non c’è niente di sbagliato nella categorizzazione. Ma essa è comunque, per sua natura transitoria: i sistemi a categorie hanno una mezza vita e le categorizzazioni cominciano a sembrare abbastanza stupide dopo solo qualche anno dalla loro introduzione» [Nelson (1990), pag. 2/45]

Xanadu dev'essere per Nelson una nuova letteratura, la sua peculiarità dovrebbe consistere nella possibilità di accesso istantaneo a tutti i documenti (con un apposito conteggio dei diritti d'autore), questi documenti potranno essere tagliati o ampliati conservando la storia delle successive operazioni su di essi.

Facciamo un esempio. Su Xanadu io potrei trovare la Divina Commedia e la ricetta della torta di mele della nonna, non volendo ritoccare gli endecasillabi di Dante deciderei di leggere la ricetta. Mettiamo di trovare scritto che occorrono 200 grammi di zucchero, ma mia nonna ne usava 250, potrei farlo sapere al resto del mondo pubblicando in rete questa mia modifica. Cosa avverrebbe? La ricetta originale rimarrebbe in un file, mettiamo nell'Ohio, mentre il file da me pubblicato conterrebbe solamente la mia modifica e il collegamento con la ricetta dell'Ohio. Chi leggesse la mia ricetta potrebbe poi essere interessato a leggere quella iniziale e potrebbe istantaneamente accedervi.

Altro esempio. Sto scrivendo la mia tesi, rileggo il primo capitolo non mi piace una frase, decido di cambiarla. Se volessi mantenere le due versioni dovrei salvare due files identici, tranne che per quella frase. Con il sistema Xanadu potrei invece salvare unicamente la correzione insieme a un collegamento su dove debba essere inserita e mantenere entrambe le versioni.

La differenza definita da Nelson è tra l'ipertesto a brani, in cui il lettore passa da un brano all'altro, il più diffuso, e l'ipertesto a finestre o composito in cui i brani non sequenziali sono composti da "finestre" su materiale archiviato di diversa provenienza.

Il progetto Xanadu concepito da Ted Nelson e i suoi collaboratori non ha sinora avuto successo per una serie di motivi tecnico-commerciali: reti informatiche insufficienti, resistenze da parte delle altre ditte di sistemi, l'impossibilità di un collaudo su vasta scala, il pagamento elettronico dei diritti d'autore. Il World Wide Web del CERN di Ginevra è comunque ispirato nella sua progettazione alle idee nelsoniane ed è oggi una delle componenti principali di Internet. Al di là delle analisi tecnico-economiche, a noi interessa la concezione che presiede a questo progetto.

«Siamo alla ricerca di metodi che ci consentano di manipolare, sempre che riusciamo a scoprire come definirla, la "vera" struttura di un testo. [...] La struttura di cui stiamo parlando è la letteratura. [..] La letteratura è un sistema di documenti interconnessi» [Nelson (1990), pagg. 2/4-6-8]. L'obiettivo di Nelson, come citato sopra, è quello di realizzare una nuova letteratura mediante gli ipertesti. Essa corrisponderà alla vera struttura del testo. Sappiamo che, per Nelson, la scrittura sequenziale è un caso particolare di quella ipertestuale, quest'ultima permetterebbe di riflettere la struttura di ciò di cui scriviamo.

Ciò di cui scriviamo

Nelson dice che la scrittura deve riflettere i nostri pensieri. «La struttura delle idee non è mai sequenziale; e in verità, nemmeno i processi del nostro pensiero sono molto sequenziali» [Nelson (1990), pag. 1/16]. I pensieri non devono essere "ingabbiati" dalla scrittura sequenziale ma devono essere liberi da quei vincoli e disegnare i loro percorsi. «È l'intera rappresentazione della struttura delle idee, e la loro disposizione su una pagina perché gli altri possano capirle, che noi chiamiamo scrittura. La scrittura è la presentazione e la rappresentazione del pensiero.» [Nelson (1990), pag. 1/16]. Ecco allora che ciò di cui scriviamo non è più la voce, essa è stata dematerializzata, ed è divenuta un semplice mezzo per la lettura dei significati del pensiero. La voce interiore dell'anima, della coscienza, della mente è quella che ora conta, che sa dov'è il significato, e la scrittura è la rappresentazione dell'immagine mentale dell'anima. Tutto ciò è avvenuto grazie a Theuth.

Nel Fedro platonico, Socrate narra il mito dell'invenzione dell'alfabeto da parte del dio Theuth; si tratta di una divinità egiziana che nel racconto scende a dialogare con il re di Tebe Thamus. Il re è perplesso sui benefici che può portare l'alfabeto, nonostante le lodi del suo inventore, e a un certo punto gli dice: «Ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria ma per richiamare alla mente.»(16) Quello che interessava al re e alla civiltà che egli rappresentava, in cui la trasmissione del sapere avveniva oralmente, era una ricetta per potenziare la memoria, necessaria per trasmettere i propri miti e racconti, ma quella memoria era tutt'uno con l'interpretare, con l'esperienza emozionale, non era il magazzino di una mente. Difatti il re dice che è l'alfabeto il mezzo per richiamare alla mente. Pensiamo a Tommaso Campanella che rinchiuso in carcere e senza carta per scrivere compose intere opere «mandandosele a memoria» per poi trascriverle quando usciva. Ma è solo con l'alfabeto che appare un soggetto mentale con immagini mentali, il cui scopo è essere in grado di ricostruire, richiamare, la visione topologica della verità definitoria delle idee platoniche. Siamo noi alfabeti che usiamo la memoria per scrivere schemi definitori, perché così ci hanno insegnato a fare sui nostri quaderni d’infanzia: scrivi duecento A, poi duecento B e poi le C.

Riepilogo

- L’evento della scrittura alfabetica produce la possibilità della fondazione del sapere metafisico in cui i segni sensibili rinviano a un ultrasensibile di cui occorre comprendere lo schema: il significato.

- Già la stampa permette un accesso non lineare e selettivo al testo ma solo l’ipertesto può realizzarlo con la sua velocità di collegamento.

- Il progetto Xanadu vuole realizzare il collegamento tra tutti i documenti per fondare una nuova letteratura basata su criteri associativi simili a quelli del nostro pensiero.

- Il nostro pensiero è però il prodotto della pratica alfabetica.



Il pensiero: dal teatro della memoria alla società della mente
L'analisi della scrittura, in particolare quella alfabetica, ci ha portato a individuare come la nostra "mente" sia frutto di una pratica mondana d'iscrizione. Questo vuol dire che gli analfabeti non pensano? Intendiamoci un'aborigeno intrattiene una serie di relazioni senso-motorie con il cosmo, si emoziona, sente il racconto degli avi, sogna, vive in un universo di senso che iscrive corporalmente su di sé, ma non pensa come noi, in lui non pensa una "mente logica". È all'oscuro della struttura delle idee, ma non perché sia cieco all'evidenza, semplicemente perché senza la pratica alfabetica essa non esiste. Certo se lo portiamo nelle nostre scuole e lo in-struiamo alfabeticamente, anche lui "misteriosamente" imparerà che gli spiriti non mangiano.

La genealogia che qui voglio abbozzare è quella che porta a individuare nell'ipertesto una forma di scrittura peculiare del pensiero.

La mnemotecnica

L'arte della memoria di Francis Yates ha il merito di trattare organicamente una tecnica, per noi quasi priva di senso, che, per molti secoli e per tutto il Rinascimento, ebbe grande considerazione tra i sapienti. La mnemotecnica, o mnemonica, potrebbe essere divisa approssimativamente in due grandi filoni: uno "platonico" e uno "aristotelico". Da un punto di vista storico-tecnico tale divisione non ha molto senso. La mnemonica preesiste ai due filosofi greci, la tradizione ne individua il padre in Simonide di Ceo, un lirico greco vissuto tra il VI e il V secolo a.C.. La distinzione introdotta vuole servire a distinguere due diverse concezioni della mnemonica che si sono susseguite nei secoli, confrontandosi e mischiandosi con la tradizione ermetica e cabalistica. Ma che cos'è la mnemonica?

«Persone desiderose di addestrare questa facoltà [la memoria] devono scegliere alcuni luoghi e formarsi immagini mentali delle cose che desiderano ricordare, e collocare quelle immagini in quei luoghi, in modo che l'ordine dei luoghi garantisca l'ordine delle cose, le immagini delle cose denotino le cose stesse, e noi possiamo utilizzare i luoghi e le immagini rispettivamente come la tavoletta cerata e le lettere scritte su di essa. [...] Le figure più complete si formano nella nostra mente dalle cose che sono avviate ad essa e impresse in essa dai sensi e che il più acuto di tutti i nostri sensi è il senso della vista; e che di conseguenza percezioni ricevute attraverso gli orecchi o formate attraverso la riflessione possono essere ritenute più agevolmente, se vengono avviate alla nostra mente per mezzo degli occhi.»(17)

Si potrebbe dire che la mnemotecnica consiste in un'iscrizione di mondo, in un'associazione di immagini mentali a simboli corporei. Ma questa distinzione è quella dell'uomo alfabetico, prima non vi era l'immagine mentale da assegnare al simbolo, non vi erano significati, il ricordo era sempre un'interpretare in situazione, nell'apertura di senso dell'incontro con l'Altro.

Veniamo allora alla distinzione "aristotelico"-"platonica". Potremmo definire "aristotelica" la mnemonica dell'età classica romana e quella della scolastica medievale, "platonica" quella dei neoplatonici rinascimentali e quella medievale di Lullo. Mentre per Aristotele le immagini mentali sono il termine medio che permette il passaggio dalla percezione al pensiero, per Platone esse sono la possibilità di reminiscenza delle Forme, delle Idee. Ecco perché Platone attacca l'uso della mnemonica fatto dai sofisti, quello al servizio del retore perché possa ricordarsi i suoi discorsi. E mentre la mnemotecnica diciamo "aristotelica", userà quest'arte cercando di valorizzarne al massimo le possibilità tecniche di scuotere la memoria, utilizzando anche soluzioni delle arti figurative, ma solo per racchiudere intenzioni spirituali in simboli corporei; quella dei neoplatonici cercherà di costruire una memoria artificiale basata sulla verità, «su luoghi eterni e non caduchi» come avrà a dire Giulio Camillo.

Il teatro di Giulio Camillo

Molti potrebbero ritenere che l'ipertesto discenda, per quanto riguarda la mnemonica, dall'arte lulliana, che inserì una «caratteristica quasi algebrica o di scientifica astrattezza», rappresentando i concetti con lettere, e introducendo il movimento nella memoria: le lettere erano rotanti. Senz'altro Lullo è uno dei capostipiti di quella tradizione che, passando attraverso l'Ars combinatoria di Leibniz, ricerca la scrittura dell'universo e di cui la numerizzazione informatica è probabilmente uno degli ultimi effetti. Ma se pensiamo l'ipertesto come un ambiente virtuale, multimediale e interconnesso, allora, la sua genealogia va ricercata nel Teatro di Giulio Camillo.

Giulio Camillo Delminio, narra Frances Yates, fu uno degli uomini più famosi e riveriti del XVI secolo. Ai posteri fu per lo più sconosciuto poiché non pubblicò mai il libro che l'avrebbe dovuto rendere famoso. Camillo visse all'inizio dell'era della stampa e questo lo rese uno sconfitto, il suo progetto era infatti la prosecuzione della tradizione neoplatonica ed ermetico-cabalista: non si trattava solo di elaborare una forma di trasmissione del sapere, ma di ricercare una penetrazione magica delle cose, e molti movimenti prescientifici seguirono questo ideale. Ma qual era il progetto di Camillo?

«Egli chiama questo suo teatro con molti nomi, dicendo ora che è una mente e un'anima artificiale, ora che è un'anima provvista di finestre. Pretende che tutte le cose che la mente umana può concepire e che non si possono vedere con l'occhio corporeo, possono tuttavia, dopo essere state raccolte con attenta meditazione, essere espresse mediante certi simboli corporei in modo tale che l'osservatore può, all'istante, percepire con l'occhio tutto ciò che altrimenti è celato nelle profondità della mente umana. E appunto a causa di questa percezione corporea lo chiama un teatro» [Yates (1966), pag. 123]. Così Viglio, testimone oculare della costruzione camilliana, scrive al maestro Erasmo nella decima delle Epistolae.

Chi volesse conoscere di più sulla tecnica di costruzione del Teatro, i suoi significati esoterici e la sua qualità di continuo cantiere aperto, può consultare il testo della Yates. Io vorrei soffermarmi sulla modernità ai nostri occhi delle intenzioni di Camillo. Si parla di mente (anima) artificiale: concetto fondamentale dell'Intelligenza Artificiale e della cibernetica del nostro secolo; si introduce il concetto di conoscenza a finestra tipico dell'ipertesto. Si intende, pur non nominandolo, che esista un occhio interno della mente(18) , ma la conoscenza non avviene solo tramite la visione, essa può essere, con maggior profitto, corporea, con un interessamento di tutti i sensi: concetto base della multimedialità e dei principi sinestetici delle scienze cognitive. Sia chiaro che Camillo non pensava a interfacce audio-video, la percezione corporea di cui si parla è, probabilmente, da intendersi come partecipazione del microcosmo umano al macrocosmo della natura, alla conoscenza della verità come esperienza totale e non solo psichica: basti pensare alla descrizione nel Fedro platonico del vero rapporto amoroso.

Noi però abbiamo abbandonato la magia per la scienza, ciò nonostante di mente artificiale si parla ancora, eccome.

Marvin Minsky è stato uno dei padri dell'Intelligenza Artificiale, della possibilità di un modello artificiale della mente umana. Ora, essendo cambiati i tempi, nella mente non ci sono più gli attori del Teatro, lo spettacolo si è spostato agli agenti della società.

La società della mente

Minsky pubblica La società della mente nel 1986 dopo una lunga gestazione; una delle cause sarebbe il fatto che: «una mente è troppo complessa per poter essere contenuta in una narrazione che comincia qui e finisce là; un intelletto umano dipende dalle connessioni di una rete aggrovigliata, che non funzionerebbe affatto se venisse sbrogliata e disposta in bell'ordine» [Minsky (1986), pag. 637]. Se si vuole costruire una mente artificiale occorre comprendere il funzionamento e la struttura di quella umana, ciò non può essere spiegato in maniera causale e lineare, difatti l'opera di Minsky è composta di oltre 200 paragrafi distinti che sono connessi tra loro in modo non sequenziale.(19)

Minsky parte dalla posizione che il mentale deve essere spiegato a partire da ciò che non è mentale, la mente come fenomeno evolutivo della vita terrestre. Perciò solo una prospettiva olistica, in cui l'interazione delle parti costituenti produce l'apparire di una funzione prima inesistente, può portarci a spiegare la comparsa della mente. Andrebbe però ricordato che un oggetto "mente" può essere esperito solo dopo che si è costituita una mente, ma quest'ultima non è un semplice lascito genetico, è il frutto di una serie di pratiche.

La mente è dunque un processo di pensieri, ma essa è inscindibile da questo processo e ne viene costantemente modificata, non in maniera anarchica ma secondo strutture che Minsky chiama frames. Tutto sta nel capire come si formino e come si modifichino questi frames. I pensieri, neurofisiologicamente, sarebbero movimenti di gruppi neuronali. I frames sarebbero i percorsi che i neuroni seguono per interagire tra loro. A noi qui non interessa entrare nel merito dei princìpi dei frames.

«Il segreto di ciò che una cosa significa per noi dipende dal modo in cui l'abbiamo collegata alle altre cose che conosciamo. Ecco perché quasi sempre è sbagliato cercare il "vero significato" di una cosa. Una cosa con un solo significato è pressoché priva di significato» [Minsky (1986), pag. 117]. L'attività cognitiva potrebbe quindi essere descritta come l'attività di legare i nodi (gli oggetti) di una rete (il significato) tramite un processo (la mente) che si modifica nel suo procedere. È da evidenziare che i nodi (gli oggetti) possono esistere solo all'interno di una rete (di significati) e che la capacità di legare (la mente) si manifesta solo nel suo accadere pratico.

Capite ora che il Teatro di Camillo se guardato dal punto di vista del magazzino dati era ben poca cosa, molto meglio le enciclopedie, ma, osservato nell'ottica di una mente artificiale che interagisce con quella dello spettatore, esso rappresenta per noi uomini cibernetici un illustre antenato.

Riepilogo
- Nella genealogia dell'ipertesto sembra esserci anche la mente stessa, l'ipertesto è perciò una mente? o la mente è un ipertesto?

- Se la scrittura alfabetica come abbiamo visto produce la possibilità di una mente logica, sta per apparire una mente ipertestuale? O addirittura possiamo dire che la mente è sempre stata ipertestuale e l'alfabeto ci ha impedito sinora di scoprirlo?

Proveremo a rispondere nella seconda parte, ma ora possiamo tentare di scrivere i princìpi dell'ipertesto.

Princìpi dell'ipertesto
Quali sono i princìpi che caratterizzano un ipertesto? Quando possiamo parlare di scrittura ipertestuale? Rispondere a queste domande è compiere un'operazione di astrazione. Definendo i princìpi di una tecnica, noi "estraiamo" i suoi concetti per poterla utilizzare proficuamente in altri campi. Sin dalla maieutica socratica la filosofia pratica questo metodo.

Tratteniamo le domande su come sia possibile astrarre dei concetti e soprattutto come avvenga che essi si rivelino validi anche in altri campi, e vediamo quali sono questi princìpi? Pierre Lévy ne elenca sei, «al fine di preservare le possibilità di interpretazioni molteplici del modello dell'ipertesto» [Lévy (1990), pagg. 31-33]. Sin dall'inizio Lévy vuole rendere possibile la metafora dell'ipertesto, così, d'altra parte, intitola la prima parte della sua opera.

1- Principio di metamorfosi
«La rete ipertestuale è continuamente in costruzione e rinegoziazione».

Una pubblicazione elettronica in rete può essere continuamente aggiornata dall’autore ma soprattutto può essere inserita nel percorso suggerito da un altro "navigante"(20). Una pagina web può diventare luogo di passaggio di molteplici navigazioni, e quindi assumere significati differenti a seconda dei contesti in cui è inserita.

Anche la nostra conoscenza d’altra parte non è formata di significati immutabili o stratificati, nuove esperienze possono mutare anche radicalmente il significato che attribuiamo agli oggetti, basti pensare al concetto di luce o di colore nella scienza e nella filosofia moderne.

2- Principio di eterogeneità
«I nodi e i legami di una rete ipertestuale sono eterogenei».

L'ipertesto non è prodotto da unità atomiche simili, dagli stessi mattoni, ne è legato da un unico tipo di processo. Un esempio è la multimedialità ipertestuale in cui scrittura alfabetica, immagini anche tridimensionali, audio e video, contribuiscono a creare la rete in cui ci spostiamo.

Anche la nostra conoscenza è normalmente multisensoriale, al nostro cervello arrivano informazioni eterogenee (parole, suoni, visioni, odori, sensazioni tattili, sapori) prodotte da diverse fonti: linguaggio, ambiente naturale, istituzioni sociali, prodotti tecnologici. Alla fine l’oggetto di conoscenza è il prodotto di una sinestesia sensoriale.

3- Principio di molteplicità e inscatolamento delle scale

«L’ipertesto si organizza su un modello "frattale", cioè qualsiasi nodo o legame, all’analisi può rivelarsi composto di una rete».

Un ipertesto può essere considerato il nodo di un altro ipertesto e mutamenti minimi all'interno del primo possono produrre effetti non lineari sul secondo. Nell’ipertesto il link (il collegamento) viene normalmente rappresentato da una parola scritta in un colore diverso o da un’icona che modifica lo stato del puntatore quando esso vi passa sopra. Dietro queste parole o icone può esserci un "sotto" documento oppure il rinvio a un altro ipertesto. Dove finisce un ipertesto collegato in rete risulta difficile da individuare.

D’altra parte la nostra attività cognitiva non funziona in maniera molto differente. Scrive Lévy: «Sento una parola, questa attiva immediatamente nella mia mente una rete di altre parole, di concetti, di modelli ma anche di immagini, di suoni, di odori, di sensazioni propriocettive, di ricordi, di affetti, ecc.». Poi l’autore francese fa l’esempio della parola "mela" che «fa sorgere il modello mentale di un oggetto piuttosto sferico, ricoperto di una pelle dal color variabile [...] La parola mela è al centro di tutta una rete di immagini e di concetti che, di prossimità in prossimità può estendersi fino all’insieme della nostra memoria. Ma solo i nodi selezionati dal contesto saranno attivati abbastanza forte da emergere nella nostra coscienza.» [Lévy (1990), pagg. 29-30]. Perciò i nostri oggetti di conoscenza sono tali, perché rinviano a una molteplicità di sensi e significati, seppure essi non si presentino a noi contemporaneamente.

Avanzo un dubbio: ma questo inscatolamento sinestetico non è meno potente dell’inscatolamento dialettico operato dalla diaresis platonica nel restituirci un significato intersoggettivo?

4- Principio di esteriorità
«La rete non possiede unità organica, né motore interno».

Gli sviluppi di un ipertesto sono provocati dall'interazione con fenomeni esterni non determinabili internamente. Su Internet non possiamo prevedere anticipatamente come si svilupperà la rete: l’aggiunta di un nuovo collegamento dipenderà da fattori sociali e individuali esterni. Abbiamo visto nella genealogia che le tecniche umane si modificano in modo simile. L’alfabeto semitico si trasforma in quello greco per una ragione esterna ad esso: la differente metrica della poesia greca. Il personal computer come lo conosciamo oggi è il prodotto di tecniche sviluppate in ambiti diversi che spesso si sono riunite per esigenze di mercato esterne al loro concepimento.

Anche la conoscenza umana, se pensiamo ad esempio al sapere scientifico, ha il suo motore in cause esterne: politiche, sociali, economiche, religiose. E anche senza queste la teoria newtoniana, per esempio, non è deducibile a priori da quella galileiana. L’ipertesto galileiano e quello newtoniano sono senz’altro in collegamento, ma il collegamento è secondario all’ipertesto galileiano e quest’ultimo collegato all’ipertesto newtoniano assume un significato differente da quello che presenta da solo.

5- Principio di topologia
«Negli ipertesti, tutto funziona secondo il principio di prossimità, di vicinanza. [...]
Tutto quel che si sposta deve prendere la rete ipertestuale così come è, o deve modificarla. La rete non è nello spazio, essa è lo spazio».

Ma se la rete è spazio, "navigare" in rete, significa trovarsi immersi in un ambiente. La navigazione ipertestuale è dunque un’esperienza immersiva e perciò ci pone sempre in una determinata prospettiva di esplorazione. Con il supporto cartaceo ciò che esploriamo è la superficie: un libro è un’ampia superficie ripiegata più volte per essere più maneggevole; se il libro è stampato alfabeticamente ed è privo di illustrazioni possiamo paragonarlo a un’unica striscia molto lunga che srotoliamo con il procedere della lettura. Impegnati nella lettura di un supporto cartaceo noi procediamo leggendo linearmente e in successione i caratteri alfabetici ma anche con sguardi panoramici: cerchiamo un argomento sull’indice, sfogliamo un giornale soffermandoci su titoli e figure. Affrontiamo la lettura come se dovessimo interpretare una mappa: i documenti sono mappe di segni.

Alla lettura ipertestuale manca spesso la possibilità di uno sguardo panoramico sul documento: guardiamo attraverso una finestra. In compenso possiamo interagire con il testo e trasformare l’atto di lettura in quello di scrittura o di ri-scrittura. Queste caratteristiche consentono di dire che la navigazione ipertestuale avviene come se fossimo immersi in un ambiente popolato da segni. Perciò l'ipertesto non è posto in uno spazio vuoto antecedente ma è il suo costituirsi che traccia la possibilità del vuoto e di un percorso al suo interno. "Cartografarlo" non è ricopiarne i sentieri ma scegliere tra, costruire delle strade.

6- Principio di mobilità dei centri
«La rete non ha centro, o piuttosto, possiede in permanenza diversi centri che sono come tanti punti luminosi continuamente in movimento».

Non esiste un centro, né tanto meno un'origine della rete: il primo nodo può apparire solo dopo il primo legame. Su Internet vi sono siti più vasti, con maggiori informazioni ma il concetto di centro come luogo con maggior valore (storico, economico o culturale) non ha più senso: ciò che sta al centro della nostra attenzione in un determinato momento riconfigura la rete rispetto a esso.

Anche la nostra attività neurologica, secondo quanto scritto da Minsky e sostenuto da numerosi neurofisiologi, si organizza secondo processi policentrici.

Riteniamoci soddisfatti di questa caratterizzazione e mettiamola alla prova nella seconda parte: Dell'etica ipertestuale.

Dell'etica ipertestuale
Intendo qui il termine etica nel senso di costume, abito comportamentale. L'etica ipertestuale riguarda quindi i mutamenti che la tecnica ipertestuale produce in noi. Come il sottotitolo dell'opera premette, non mi occuperò delle trasformazioni economico-sociali che la scrittura non sequenziale comporta e concentrerò la mia ricerca su come essa modifichi la nostra concezione del sapere e della conoscenza. Attenzione, non come essa incida sui processi cognitivi, ma come essa ci inviti a ripensare la nostra possibilità di conoscere.

Il primo capitolo di quest'etica s'intitola Metafora dell'ipertesto. In esso si mostra come possa avvenire il "trasporto" dell'ipertesto, da peculiare tecnologia intellettuale a paradigma dell'attività cognitiva. D'altra parte la genealogia si chiude con una domanda sui rapporti tra mente e ipertesto. Colui che opera questa metafora è Pierre Lévy, di cui analizzo i due testi Le tecnologie dell'intelligenza e L'intelligenza collettiva. Possiamo già fare un'osservazione sul pensiero di Lévy notando l'uso del termine intelligenza in entrambi i titoli al posto di conoscenza. Per l'autore il pensiero è quindi visto come un'attività dinamica continua (scegliere tra) e non solo come l'acquisizione di sapere (prendere con).

Il secondo capitolo: Critica dell'ipertesto, vuole invece individuare i punti deboli della costruzione metaforica di Lévy.

Infine il terzo capitolo: Logica dell'ipertesto, cerca, a partire dai limiti evidenziati dalla critica, di analizzare quali trasformazioni subisca il logos della pratica ipertestuale.

Metafora dell'ipertesto
«La metafora dell'ipertesto rende conto della struttura indefinitamente ricorsiva del senso» [Lévy (1990), pag. 81]. «L’ipertesto è forse una metafora che vale per tutte le sfere della realtà in cui delle significazioni sono in gioco» [Lévy (1990), pag. 31].
Pierre Lévy vuole proporre una teoria ermeneutica della comunicazione usando la «metafora chiarificatrice» dell'ipertesto.

Cosa intende Lévy per comunicazione? Egli dice: «Il fondamento trascendentale della comunicazione, compresa come condivisione di senso, è questo contesto o questo ipertesto condiviso» [Lévy (1990), pag. 81]. Dunque comunicare è condividere il senso. Laddove il senso di un messaggio non è chiarito dal suo contesto. «Diremo piuttosto che l'effetto di un messaggio è di modificare, complessificare, rettificare un ipertesto, creare delle nuove associazioni in una rete contestuale che è sempre presente» [Lévy (1990), pag. 81].

La concezione della comunicazione di Lévy è principalmente pragmatistica. Il contesto, l'ipertesto, l'orizzonte di mondo, -aggiungo io-, sono metamorfici, plastici alla prassi comunicativa. E contemporaneamente ogni comunicazione pro-viene da un contesto, è in pro-spettiva rispetto ad esso. Messaggio e contesto, linguaggio e mondo sono le due facce dell'evento comunicativo. Esse non gli sussistono, anzi si costituiscono a partire da esso. Ma Lévy dice questo? o sono io che sto cercando di farglielo dire? o lo dice ma non lo "pensa"?
Ecco il percorso che si sta delineando. Quali conseguenze ha la metafora dell'ipertesto? sino a dove Lévy è disposto a seguirle? E se questa metafora ha successo, perché? entro quali limiti?



La metafora dell’ipertesto in Pierre Lévy
In Le tecnologie dell'intelligenza [Lévy (1990)] l'astrazione metaforica avviene a partire dalla tecnologia ipertestuale. L'autore, infatti, prima descrive i caratteri e il funzionamento dell'ipertesto, sottolineando come l'ipertesto sia il frutto dell'interfacciarsi di una serie di tecnologie -dalla stampa all'informatica-, ovvero come esso sia il prodotto di una rete di attori eterogenei, poi inizia con la prima metafora. Ma allora la tecnica è un'ipertesto? A sostegno di questa tesi Lévy porta gli esempi del personal computer [vedi Storia dell'interazione conviviale] e del groupware, arrivando a dire che «nella misura in cui ogni connessione supplementare, ogni nuovo strato trasforma il funzionamento ed il significato dell'insieme, il calcolatore possiede la struttura di un ipertesto, come forse ogni dispositivo tecnico completo» [Lévy (1990), pag. 67]. E aggiunge: «Non c'è dunque la tecnica da un lato ed il suo uso da un altro, ma un solo ipertesto, una immensa rete fluttuante e complicata di usi, in cui la tecnica consiste precisamente» [pag. 68]. Perciò anche le tecnologie intellettuali (stampa, scrittura, memoria) sono ipertesti, sino ad arrivare a quelle tecnologie intellettuali della società che sono le istituzioni.

Alla fine la metafora conduce a teorizzare che pensiero individuale, istituzioni sociali e tecniche di comunicazione sono legate in rete a formare collettivi pensanti di uomini-cose e per studiarli occorre, secondo Lévy, un programma di ecologia cognitiva.



L'ecologia cognitiva
Per l'ecologia cognitiva «non c’è più soggetto o sostanza pensante, né materiale, né spirituale. "Ça pense" in una rete in cui dei neuroni, dei moduli cognitivi, degli umani, delle istituzioni di insegnamento, delle lingue, dei sistemi di scrittura, dei libri e dei calcolatori si interconnettono, trasformano e traducono delle rappresentazioni» [Lévy (1990), pag. 150]. Ma allora «quel che occorre pensare è l’implicazione, la coesistenza e l’interpretazione reciproca dei diversi circuiti di produzione e di diffusione dei saperi» [Lévy (1990), pag. 128], poiché «l’uso di questa o quella tecnologia intellettuale pone un accento particolare su certi valori, certe dimensioni dell’attività cognitiva o dell’immagine sociale del tempo, che divengono allora più esplicitamente tematizzate, ed intorno alle quali si cristallizzano delle forme culturali particolari» [Lévy (1990), pag. 139]. Lévy individua infatti tre poli, "tre tempi della mente": quello dell'oralità primaria, della narrazione mitica, della ciclicità temporale; quello della scrittura, dell'interpretazione teorica, della linearità temporale; quello dell'informatica, della simulazione modellistica, dell'implosione temporale (tempo reale). Secondo lui essi sono sempre presenti ma con più o meno intensità.

Dunque «l'ecologia cognitiva è lo studio delle dimensioni tecniche e collettive della cognizione» [Lévy (1990), pag. 151] secondo due princìpi: il principio di molteplicità in collegamento, una tecnologia intellettuale dev'essere analizzata come una molteplicità indefinitamente aperta, e il principio di interpretazione, il senso di una tecnica non è mai dato definitivamente ma è sempre in gioco nelle interpretazioni contraddittorie e contingenti. Questi princìpi vogliono sottolineare che, pur esistendo delle strutture, esse sono fluide, provvisorie, senza limiti precisi, distribuite, e i paradigmi e le epistemai non spiegano niente, anzi sono essi che devono essere spiegati a partire dall'interazione degli attori, degli agenti effettivi di quella pratica.

L'ecologia cognitiva, secondo queste premesse, critica ogni concezione naturalistica del pensiero logico-razionale, per essa si tratta invece di un effetto ecologico dell'uso di alcune tecnologie intellettuali. Per Lévy «il soggetto trascendentale è storico, variabile, indefinito, composito» [Lévy (1990), pag. 175].

I princìpi della rete ipertestuale come abbiamo visto sembrano descrivere anche l'attività cognitiva: «L'essere conoscente è una rete complessa in cui i nodi biologici sono ridefiniti ed allacciati da dei nodi tecnici, semiotici, istituzionali, culturali. La distinzione netta tra un mondo oggettivo inerte e dei soggetti-sostanze soli portatori di attività e di luce è abolita. Occorre pensare degli effetti di soggettività nelle reti d'interfacce e di mondi emergenti provvisoriamente da condizioni ecologiche locali» [Lévy (1990), pag. 175]. Resta da spiegare il fatto che l'abolizione della distinzione può avvenire solo da parte di chi già distingue e che una rete allaccia sì, ma creando una miriade di nodi distinti. Avremo spazio oltre per farlo.

Il pensare come «divenire collettivo in cui si mescolano uomini e cose» evidenziato dall'ecologia cognitiva, porta Lévy a dire di aver trovato la fine della metafisica, delle opposizioni nette come soggetto e oggetto, essere e tempo, non a vantaggio della trascendenza di un essere supremo ma a partire da processi locali e transitori. «L'interiorizzazione delle tecnologie intellettuali può essere molto forte» ed «è con questi elementi esterni interiorizzati, soggettivizzati, metaforizzati dall'abitudine e dall'immaginazione che noi creiamo delle nuove entità udibili o visibili, concrezioni durevoli o eventi fugaci, che altri o forse noi stessi interiorizzeremo di nuovo...» [Lévy (1990), pag. 188].

Ma chi opera il passaggio? È «l'interfaccia che tiene insieme le due dimensioni del divenire: il movimento e la metamorfosi» [Lévy (1990), pag. 191]. La nozione di interfaccia non dev'essere per Lévy confinata all'informatica, dove è nata per intendere un dispositivo che assicura la comunicazione tra sistemi e tra sistemi e reti, ma dev'essere assunta come metafora dell'attività metaforica, della traduzione, del tras-porto. Le tecnologie intellettuali e la tecnica in generale possono allora essere descritte come reti d'interfacce.

«Se ogni processo è interfacciamento, dunque traduzione, questo è perché nessun messaggio si trasmette tale e quale, in un ambiente conduttore neutro, ma deve superare discontinuità che lo trasformano. [...] L’illusione consiste nel credere che ci siano delle conoscenze o delle informazioni stabili, che potrebbero cambiare di supporto, essere rappresentate altrimenti o semplicemente viaggiare mantenendo la loro identità. Illusione perché ciò di cui si occupano le teorie della conoscenza sono degli effetti di supporto, di connessione, di prossimità, di interfacce» [Lévy (1990), pagg. 198-199].

Perciò possiamo dire sia che le tecnologie non sono servi obbedienti e fedeli sia che non esiste un soggetto puro da esse.
Abbiamo seguito con molta attenzione la metafora dell'ipertesto descritta da Pierre Lévy che ha permesso la caratterizzazione del pensiero come attività cognitiva che può darsi solamente all'interno della rete creata dai collettivi formati da individui, istituzioni, tecnologie intellettuali. La mente, il processo dei pensieri, è un ipertesto e conosce interfacciandosi con altri ipertesti, ma l'interfacciarsi non è un'operazione neutrale e produce rinegoziazione, metamorfosi del contesto dal quale non si può prescindere.
La metafora di Lévy come si è sviluppata nella successiva opera: L'intelligenza collettiva [1994]?



L'intelligenza collettiva
Lévy aveva già parlato di intelligenza collettiva in Le tecnologie dell'intelligenza a proposito dell'esperienza dei groupware, i programmi collettivi. «Con i programmi collettivi, il dibattito si riconduce alla costruzione progressiva di una rete di argomenti e documentazioni sempre presente agli occhi della comunità, maneggiabile in ogni istante. Non è più "ciascuno al suo turno", "uno dopo l'altro", ma una sorta di lenta scrittura collettiva, desincronizzata, sdrammatizzata, esplosa, come in crescita su sé stessa secondo una moltitudine di linee parallele, e tuttavia sempre disponibile, ordinata, oggettivata sullo schermo. Il programma collettivo inaugura forse una nuova geometria della comunicazione. [...] Quel che si chiama astrazione spesso non è nient'altro che la trasformazione delle procedure in segni, segni che a loro volta saranno oggetto di diverse manipolazioni» [Lévy (1990), pagg. 75 e 77].

Nella nuova opera l'autore è interessato a descrivere la possibilità e l'auspicabilità di un nuovo spazio antropologico: lo Spazio del sapere, caratterizzato da società intelligenti a livello di massa. Il problema «consiste nello scoprire o nell'inventare un al di là della scrittura, qualcosa che si collochi oltre il linguaggio in modo tale che il trattamento dell'informazione sia distribuito ovunque e ovunque coordinato e non sia più prerogativa di organi sociali separati, ma si integri in maniera naturale nella totalità delle attività umane, in modo da tornare nelle mani di ognuno.» «Nuovo umanesimo che include e amplia il "conosci te stesso" in direzione di un "impariamo a conoscere per pensare insieme" [...]. Si passa dal cogito cartesiano al cogitamus» [Lévy (1994), pag. 20-21 e 37].

Insomma Lévy vuol farsi profeta di una iperlingua (surlangue) che permetta la costituzione di una società legata dalla continua valorizzazione delle intelligenze e dal coordinamento in tempo reale delle conoscenze, intese come competenze, che sono risiedenti ovunque. Un bel progetto, ma a noi non interessa dare un giudizio morale o estetico, vorremmo capire se esso è possibile, a quali condizioni e cosa comporti.

Innanzitutto, quali sono e cosa sono gli spazi antropologici?

Lévy ne individua quattro, i primi tre sono riconducibili ai tre tempi della mente descritti ne Le tecnologie dell'intelligenza:

- la Terra, è lo spazio da «sempre presente» in quanto sfondo che permette l'apparire dell'uomo, l'attività mimetico-linguistica-metamorfica lo consegna a vivere non in una «nicchia ecologica» ma in un cosmo che lui stesso traccia;

- il Territorio, spazio segnato dall'agricoltura, dallo stato, dalla città, dalla scrittura. Esso instaura con la Terra un «rapporto predatorio distruttivo»: fissando, delimitando, misurando. Ma la Terra torna sempre: straripando, emigrando;

- lo Spazio delle merci, che non appare semplicemente con lo scambio e il commercio ma quando «il vortice del denaro» supera le frontiere e le gerarchie del Territorio, quando il capitalismo «trasforma in merce tutto ciò che riesce a far rientrare nei suoi circuiti», subordinando il Territorio alla globalizzazione;

- lo Spazio del sapere, che non è mai stato realizzato autonomamente, ma che ha il volto virtuale degli intellettuali collettivi in «riassetto dinamico permanente». Non la conoscenza scientifica in sé ma «uno spazio del vivere-sapere e del pensiero collettivo che potrebbe organizzare l'esistenza e la socialità delle comunità umane».

«Gli spazi antropologici sono mondi di significato e non categorie reificate che si spartiscono gli oggetti corporei: un fenomeno qualsiasi può dunque rientrare in più spazi alla volta e all'interno di ciascuno di essi avrà una figura, un peso, una velocità diversi» [Lévy (1994), pag. 152].

Il fatto è che lo Spazio del sapere, nonostante sia, secondo Lévy, delineato da molte tendenze della società contemporanea e fortemente auspicabile, non è ancora autonomo e forse non lo diventerà mai. Come operare il passaggio all'autonomia, all'irreversibilità? con quale prassi? con quale abito?



Lo Spazio del sapere
Analizziamo ora quali pratiche, quali strumenti, quali significazioni, secondo l'autore francese, costituiscono l'abitare lo Spazio del sapere: la rete collettiva delle intelligenze.

Gli strumenti di navigazione

Lévy propone come strumento di riferimento per lo Spazio del sapere la cinecarta, che dice di aver concepito appositamente assieme a Michel Authier. Cos'è? Lévy scrive che si tratta di «un mosaico mobile, in continua ricomposizione, in cui ogni frammento è già una figura completa che prende, però, in ogni istante, il proprio senso e il proprio valore solo all'interno di una configurazione generale» [Lévy (1994), pag. 190]. Si tratta quindi di un'organizzazione topologica di relazioni e rapporti tra punti-segno che esprimono qualità. Ogni punto-segno è però una struttura ipertestuale e al suo interno vi sono ulteriori informazioni. Oltre a essere topologica la cinecarta è dinamica. L'evoluzione, la pellicola continua delle trasformazioni è fonte d'informazioni.

Per Lévy è solo tramite una cinecarta che un gruppo umano si può costituire come intellettuale collettivo, essa infatti rende possibile l'emergere dei valori degli oggetti dell'universo dell'informazione secondo una molteplicità di criteri, e ogni membro dell'intellettuale può collocarsi sulla cinecarta come oggetto-attore. D'altra parte «la cinecarta è una realtà virtuale, un cyberspazio generato dalle attività esplorative di un intellettuale collettivo in seno a un universo dell'informazione» [Lévy (1994), pag. 192].

Semiotica

Per Lévy mentre la semiotica del Territorio è la cesura, il differimento, la trascendenza del segno rispetto alla presenza indistinta dello Spazio della Terra, la semiotica dello Spazio delle merci è caratterizzata dall'illusione, dalla moltiplicazione segnica dei media che fanno circolare rappresentazioni detronizzate, «non solo la cosa in sé, persino l'inizio della serie non è più rintracciabile». Il segno diventa effetto di registrazione, di riproduzione, di diffusione all'interno di un circuito. «L'assenza trionfa nel cuore stesso dell'abbondanza».
La semiotica dello Spazio del sapere dovrebbe portare all'uscita dal mondo dell'assenza, ritorno «dell'esistenza reale e viva, nella sfera della significazione», attraverso «l'attività pratica, intellettuale e immaginativa dei soggetti viventi». Per ottenere questo ritorno al reale anche i segni devono diventare sensibili, «lo Spazio del sapere non è altro che la realtà virtuale». Questo sforzo di «produttività semiotica» creando «altre soggettività, altre qualità dell'essere» si transustanzierà in «produttività ontologica».

Come sarà possibile tutto ciò. Si tratta, tramite le moderne tecniche informatiche di simulazione e d'interazione, di non dare più corso al «logocentrismo del Territorio». Lo scopo è di far sfuggire l'immagine alla fascinazione che le riservava lo Spazio delle merci perché possa «diventare uno strumento di risveglio, di conoscenza e invenzione ancora più potente del testo».

Epistemologia

Nello Spazio della Terra, dice Lévy, il sapere è incarnato, distribuito nel clan, e la fenomenologia e l'empirismo radicale sono le teorie della conoscenza che meglio si adattano.

Nel Territorio sono invece il Libro, il sistema, la teoria a dire il vero. Razionalismo, epistemologia, storia delle scienze, ermeneutica sono tutte concezioni che frequentano questo Spazio.

In quello delle merci sono la biblioteca enciclopedica, la rete ipertestuale della circolazione dei saperi tecnoscientifici, la modellizzazione e la simulazione informatiche che relegano in secondo piano la teoria e l'esperienza.

«Nel quarto spazio il sapere è immanente all'intellettuale collettivo. [..] Un'immanenza senza unità né codice. [...] Il suo sapere è un sapere di vita, un sapere vivente, il soggetto è ciò che sa. Contrariamente al criticismo kantiano, la prospettiva aperta dagli intellettuali collettivi fa sfociare l'epistemologia nell'ontologia: ci sono tante qualità d'essere quanti sono i modi di conoscere» [Lévy (1994), pag. 209]. Il tipo di organizzazione dei saperi proposto da Lévy assieme a Authier per lo Spazio del sapere è la cosmopedia. Perché? «Piuttosto che con un testo a una sola dimensione, o anche con una rete ipertestuale, noi abbiamo a che fare con uno spazio multidimensionale di rappresentazioni dinamiche e interattive. [...] Al limite, la cosmopedia contiene tante semiotiche e tanti tipi di rappresentazione quanti se ne possono trovare nel mondo stesso. La cosmopedia moltiplica gli enunciati non discorsivi. [...] Come il mondo, la cosmopedia non si esplora solo discorsivamente ma anche attraverso modalità sensibili, secondo percorsi e associazioni ricchi di senso. [...] La principale caratteristica della cosmopedia, e ciò in cui consiste il suo valore, è precisamente la non-separazione. Per gli intellettuali collettivi il sapere è un continuum, un grande patchwork, ogni punto del quale può essere ripiegato su un altro. [...] È lo Spazio del sapere a venire cartografato dinamicamente e non solo una parte dell'universo di riferimento di una comunità. [...] La semplificazione non risulta dalla proiezione di un sistema di coordinate ma dall'autorganizzazione su un piano di immanenza» [Lévy (1994), pag. 210-213].

Come avrete letto Lévy ne L'intelligenza collettiva non si trattiene dall'illustrarci il suo progetto: vuole andare oltre la voce, oltre la scrittura alfabetica ma come si è visto anche oltre l'ipertesto. Dove vuole arrivare? Al superamento della trascendenza del segno attraverso una forma d'immanenza che colga senza resto il movimento reale dell'intellettuale collettivo, del pensiero vivente, dell'universo informativo.

Riepilogo

- Lévy propone l’ipertesto come metafora dell’attività cognitiva.

- L’attività cognitiva è il prodotto dell’interazione di differenti strutture dinamiche in cui non è identificabile una netta separazione tra soggetto e oggetto: l’intellettuale collettivo.

- Lévy propone perciò di studiare l’intellettuale collettivo mediante nuovi strumenti che superino il logocentrismo del nostro sapere. L’obiettivo è una surlangue, una scrittura dinamica che riesca a rappresentare i movimenti dell’intellettuale collettivo.

Quali sono i limiti di questo progetto? quale verità porta con sé? È necessaria una critica dell'ipertesto.

Critica dell'ipertesto
Lévy prospetta dunque tramite forme di reti ipertestuali (la cosmopedia e la cinecarta) la possibilità di una nuova scrittura che iscriva con maggior efficacia il pensiero dell'intellettuale collettivo. Vogliamo ora analizzarne i punti deboli.



Weissberg e l'impossibilità di un'ideografia
In due articoli apparsi sulla rivista Terminal, Jean-Louis Weissberg avanza le sue critiche a L'intelligenza collettiva. Nel primo [Weissberg (1996a)] si analizzano le conseguenze socio-politiche delle tesi di Lévy; nel secondo [Weissberg (1996b)], che a noi qui interessa, si esamina il progetto di una iscrizione del pensiero che ne riproduca la dinamica e di una relativizzazione dello statuto del linguaggio all'interno dell'espressione umana a favore di un'eventuale ideografia dinamica (titolo di un libro di Lévy del 1991 in cui si analizzano le moderne tecniche di rappresentazione dei sistemi complessi).

Pensiero senza resto

La prima domanda a cui Weissberg vuole rispondere è: «La pensée inscrite sans reste?» (si può scrivere il pensiero senza resto?).

Weissberg parte dall'osservazione che la cosmopedia ricerca «l'évanescence» del pensiero: fluidità, velocità, molteplicità; essa vuole superare il carattere pesante degli strumenti delle precedenti tecnologie intellettuali. Ma, ricorda Weissberg, il loro valore euristico non avviene malgrado, ma grazie a questo carattere, in virtù della necessità di un continuo lavoro di messa in forma, di traduzione, e «c'est le travail d'inscription, de traitment qui est producteur de sens». Poi continua dicendo che Lévy potrebbe obiettare che le cinecarte o altri strumenti degli intellettuali collettivi effettuano un lavoro d'iscrizione del pensiero. Va bene, ma che cosa le cinecarte vogliono iscrivere senza resto? Se non è il pensiero, sarà la rete di scambi collettivi, l'istantaneità dei movimenti relazionali. Ma delle due l'una, dice Weissberg: o questi movimenti, queste circolarità complesse, questi grovigli d'oggetti e di attributi massicciamente interconnessi sono presi seriamente come modelli e allora la leggibilità di un simile grafo è perfettamente oscura, oppure essi si vogliono esplorabili e allora si deve ridurre il movimento reale traducendo, filtrando, codificando. «Paradoxelment, plus l'inscription se veut proche du mouvement réel, plus elle devient confuse». E non basta dire che le cinecarte collettive sono in costante ricostruzione e modificazione per assicurare loro capacità mimetica. A meno di presupporre che i movimenti di ristrutturazione del gruppo vengano iscritti prima del loro manifestarsi. Così, dire che «il sapere è un continuum» e «la cosmopedia dematerializza le separazioni tra saperi» significa affermare il fantasma di una «totalité non-divisée»: «la "cosmopédie" dissout par principe la question des différences dans l'unification.»(21)

Pensiero per immagini

La seconda domanda è: «Penser par images?» (si può pensare per immagini? -a scapito del linguaggio-.)

Weissberg dice che l'iscrizione senza resto del pensiero di un collettivo suppone un movimento che Lévy descrive già in L'idéographie dynamique, dove immagina un sistema in grado di tradurre direttamente il movimento del reale e del pensiero tramite l'esposizione del sapere, non unidimensionalmente, logicamente, ma facendo interagire topologicamente più dimensioni cognitive. Questo progetto di cogliere il pensiero "interno" prima della sua espressione per dargli maggiore potenza, dice Weissberg, sembra ignorare il valore euristico delle cornici, delle forme, dei limiti alla libera espressione delle produzioni dello spirito. A testimonianza di ciò porta l'esempio della navigazione di ipertesti, in cui è ciò che vi presiede: ipotesi, teorie, orizzonti di senso, che permette un risultato, un guadagno, anziché un vagabondaggio aleatorio. Ma l'orizzonte di senso è dato dall'ordine del linguaggio, dal pensiero sequenziale che permette di passare dalla «navigation» alla «fixation» attraverso la «traduction». La formula matematica o l'ordine bidimensionale della tavola degli elementi sono degli esempi di traduzione-riduzione che portano a un guadagno conoscitivo attraverso la messa in relazione di alcuni parametri a discapito di altri. Anche la metafora o le «bon example» -in cui, dice Weissberg, Lévy eccelle- non si limitano a riassumere un'idea ma la radicalizzano per poterla esportare. L'animazione delle rappresentazioni del sapere non determina una lettura «augmentée». Da questo punto di vista la scrittura lineare offre un vantaggio incontestabile: tenta, con già molte difficoltà, di dire una sola cosa nello stesso tempo. Non è che non stabilisca delle connessioni, anzi, necessariamente le esplicita. Allora all'ideografia dinamica che vuole relegare il linguaggio alle funzioni di espressione e comunicazione, media tra i media, va ricordata la funzione costitutiva del mondo umano (e quindi del mondo) da parte del linguaggio. Il linguaggio suppone e nel contempo permette il pensiero astratto, e la sua difficoltà a esprimere la complessità e la simultaneità, anziché costituire un limite, «est une source de la puissance d'extériorisation humaine» che chiamiamo comunemente immaginazione, anticipazione, elaborazione, attività fantasmatica. Questo non vuol dire che esso possa tradurre integralmente le nostre pratiche di vita, ma che esso è l'interfaccia della nostra umanità.

La conclusione di Weissberg è che immagine e linguaggio, come altre competenze umane, sono in parte autonomi e parallelamente si contengono l'un l'altro. «Mais le langage est l'origine de leur différenciation». Noi sappiamo infatti che il gesto della scrittura alfabetica rende esplicita la peculiarità della voce di essere schema di traduzione di ogni saper fare [vedi voce e scrittura].

Le tecnologie intellettuali

Infine Weissberg si domanda se: «toutes le tecnologies intellectuelles sont-elles égalment efficaces?» (tutte le tecnologie intellettuali sono ugualmente efficaci?)

Weissberg critica la posizione di Lévy di dedurre dall'utilizzo, odierno e incerto, di alcuni nuovi strumenti informatici la loro possibilità di essere una tecnologia intellettuale fondamentale come la scrittura, la prospettiva o la stampa, che, da lungo tempo, hanno dato prova della loro potenza. Perciò egli conclude dicendo che, traduco dal francese, «la speranza di una traduzione dei fenomeni in segni dinamici "cartografanti" immediatamente i fenomeni, l'appello all'intuizione mentalo-visuale a scapito della razionalizzazione riduttrice, l'augurio del rispetto delle pluralità, della complessità semiotica, della molteplicità delle interazioni, è legittimamente sorgente di promettenti ricerche. Se le nuove forme di trattamento dell'informazione si eleveranno al rango di nuove strutture e affiancheranno l'effetto amplificatore dell'iscrizione del linguaggio sarà già un risultato considerevole. Non lasciamoci vincolare da una missione impossibile di espressione immediata, senza linguaggio, del pensiero».



Riepilogo
La critica di Weissberg ha l'indubbio pregio di riportarci al cuore della questione: l'ipertesto dovrebbe essere in grado, diventando cosmopedia, di permettere una nuova forma di scrittura che superi quello che anche Derrida denunciava come logocentrismo ne La grammatologia (1967) e di cui vedeva il superamento nella scrittura matematico-scientifica.

- La soluzione prospettata da Lévy è quella di un iscrizione grafico-dinamica del pensiero, quest'ultimo inteso come attività policentrica e collettiva.
- Weissberg da parte sua sembra risoluto: il pensiero non può essere espresso se non a partire dal linguaggio.

L'ipertesto come metafora di un nuovo modello cognitivo, come nuova scrittura capace di superare i limiti del linguaggio è dunque inefficace? Credo che una risposta possa essere data solo dopo avere esaminato la sua logica, ovvero quali rapporti intrattenga con il logos.