Wednesday, September 28, 2005

monetarismo

La crisi del ’29 e Keynes



In base a questa ipotesi, negli anni Trenta, subito dopo la crisi del ’29, gli economisti se la presero con gli accaparratori di oro ed altri preziosi che accusarono di essere la causa della crisi economica.

In quel clima, il provvedimento che vietava il possesso dell’oro ai privati, e che aveva tutt’altro scopo, fu accolto come una giusta misura per fare ripartire l’economia.

Keynes ci ironizzò sopra spiegando la sua idea della spesa in deficit pubblico con l’esempio della scoperta di un tesoro che era stato dapprima opportunamente nascosto dagli stessi che poi lo ritrovavano [19] .

Secondo questa ipotesi fondata sulla legge di Say, il tasso di interesse tendenziale dovrebbe aumentare. Infatti, se con la crescita della produzione aumenta il risparmio poiché si riduce la propensione al consumo della popolazione, per convincere la gente a rischiare i propri denari è necessario un tasso d’interesse crescente.

Sulla scorta di questa folle considerazione, la Banca Centrale americana adottò la sua politica monetaria dopo la crisi del ’29.

Inizialmente ridusse il tasso di sconto che passò dal 6% di prima della crisi all’1,50% del 1932. C’è una sinistra coincidenza con quanto è avvenuto dopo la caduta delle borse nell’aprile del 2000. All’incirca nello stesso lasso di tempo di allora, la FED ha ridotto il tasso di sconto dal 6,5% all’1,50%.

Anche allora accadde ben poco. La gente non aveva i soldi per mangiare e nessuno era in grado di andare in banca per chiedere un prestito.

Ovviamente, se non ripartiva la domanda, nemmeno le imprese erano in grado di chiedere prestiti, nonostante i tassi di interesse favorevoli, poiché dovevano prima smaltire i magazzini pieni di merci invendute e che marcivano lì dentro.

Visto che il taglio dei tassi non dava alcun effetto ragionevole, gli economisti provarono con l’inflazione cercando in questo modo di ottenere un’inversione di tendenza nel meccanismo finanziario aggredito dalla deflazione.

Che cosa era successo? La mancanza di domanda induceva i produttori ad abbassare i prezzi delle merci, ed ovviamente dovevano anche ridurre i salari ed il personale per sostenere i costi. La riduzione dei salari e del personale, incideva però sulla domanda complessiva facendola scemare, ed il sistema scivolava sempre più in basso verso prezzi al di sotto dei costi, questi che inseguivano i prezzi al ribasso e un numero crescente di disoccupati disperati.

Gli effetti della deflazione furono particolarmente devastanti nel settore agricolo, ed indussero una massa enorme di persone ad abbandonare le campagne e rifugiarsi in città alla disperata ricerca di un’occupazione qualsiasi.

Gli economisti più influenti di allora, Schumpeter e Robbins, predicavano che non si poteva fare nulla contro la crisi se non aspettare che passasse.

Per l’economia classica la depressione non era un male curabile, anzi non era proprio contemplata dalla teoria. Schumpeter sostenne che ogni intervento volto ad alleviare gli effetti della crisi si sarebbe risolto in un aggravamento ed allungamento della stessa. Se gli economisti di allora li considerarono praticamente ininfluenti, gli imprenditori presero invece di mira i programmi di assistenza e di previdenza che il New Deal di Roosevelt aveva iniziato con il Social Security Act, sostenendo che essi avrebbero minato irrimediabilmente l’etica del lavoro [20] .

Un economista, indubbiamente geniale, ingaggiato in un brain trust organizzato dai repubblicani del Republican National Committee, Thomas Nixon Carter di Harward, sostenne pubblicamente la necessità di sterilizzare i poveri d’America per ridurre la povertà. Egli sosteneva che erano poveri coloro che godevano di un reddito inferiore ai 1.800 dollari all’anno [21] .

Vista l’inefficacia delle manovre sul tasso di sconto, gli economisti pensarono che si dovesse intervenire sulla base monetaria, che allora era l’oro, per far circolare più moneta.

Dopo il divieto di tesaurizzazione stabilito nel 1932 da Roosevelt nei primi tempi del suo mandato, ed il divieto di conversione delle banconote in oro, il governo americano pensò che per sostenere i prezzi potesse essere utile una strana manovra sul prezzo dell’oro.

George Warren, un economista studioso dell’andamento dei prezzi in agricoltura, fece notare che i prezzi dei prodotti agricoli seguivano l’andamento del prezzo dell’oro cosa che, come nota Galbraith, non è del tutto sorprendente.

Certamente sorprendente è l’idea che la correlazione funzioni anche all’inverso: aumentando il prezzo dell’oro sarebbero aumentati anche i prezzi dei prodotti agricoli. L’idea fu presa sul serio dal governo Roosevelt che ideò un programma di acquisto a prezzi crescenti dell’oro ancora in circolazione nel paese. Il Ministero del Tesoro fece lievitare il prezzo dell’oro nel cambio con i dollari, portandolo in pochi mesi quasi a raddoppiare [22] .

La manovra ebbe limitatissimi effetti solo sulle esportazioni americane, poiché il dollaro più a buon mercato rendeva le merci americane più appetibili. Ma il problema della crisi era la domanda interna e non quella estera, che già soffriva per conto suo dei problemi che avrebbero portato poi alla seconda guerra mondiale.

La domanda rimase debole e, nonostante le promesse elettorali e le previsioni che annunciavano anno dopo anno una forte e stabile ripresa dell’economia, le cose andavano sempre peggio. Nel 1937, dopo una breve ed effimera risalita, i prezzi ricominciarono a scendere con decisione.

Keynes comprese che se la Banca centrale può controllare l’inflazione rialzando i tassi, non può certamente fare altrettanto con la deflazione abbassandoli.

Galbraith usa in proposito un’immagine efficacissima. Si può spostare verso di sé qualcosa tirando un filo, ma non la si può allontanare spingendo il filo.

Insomma, per far ripartire la domanda era necessario che qualcuno spendesse dei soldi e solo lo Stato aveva la capacità di indebitarsi e creare in questo modo moneta per far ripartire le attività economiche. Keynes cercò di convincere le autorità politiche ad adottare la sua ricetta. Polemizzò con Churchill, si incontrò con Roosevelt, ma non riuscì a convincerli della bontà delle proprie tesi.

La cosa più strana è che dopo la recessione del 1937, gli americani adottarono proprio la politica di deficit pubblico di cui Keynes proclamava la necessità, e che altrettanto aveva fatto Hitler non appena salito al potere, riuscendo a portare la Germania fuori dalla gravissima crisi economica in cui versava dal dopoguerra. Agli occhi dei suoi contemporanei, le tesi di Keynes sembravano una giustificazione intellettuale della dolorosa necessità di una politica finanziaria folle, come quella di spendere di più di quello che lo Stato incassava, che non lo strumento per uscire effettivamente dalla crisi. Follia che era meglio nascondere facendo finta di nulla in attesa che il mercato rimettesse da solo le cose a posto.

Gli economisti che analizzavano lo stato dell’economia tedesca sul finire degli anni Trenta, ne preconizzavano l’imminente disastro economico, per l’impossibilità di sostenere finanziariamente le spese pubbliche in deficit che costituivano l’ossatura della politica economica nazista.

E quando scoppiò la guerra molti predissero che essa sarebbe durata pochi mesi poiché non esistevano le risorse economiche sufficienti a sostenere uno sforzo di maggiore durata.



Secondo Keynes, non è affatto detto che tutto il risparmio debba essere investito, poiché ci sono situazioni in cui la gente preferisce tesaurizzare il proprio risparmio se non ha fiducia nell’andamento dell’economia, e quindi non necessariamente dal risparmio si genereranno nuovi investimenti.

Se non aumenta la domanda, e peggio ancora se questa diminuisce, allora le imprese dovranno ridurre la produzione e licenziare gli operai, e questo genererà una ulteriore contrazione dei consumi finché il sistema non si assesterà su un livello di equilibrio che comprende una disoccupazione che può anche essere elevata. Ciò che lo farà muovere saranno nuovi investimenti, ma questi non potranno venire dal risparmio privato che, appunto, è tesaurizzato a causa della crisi.

Insomma Keynes dimostrò che il sistema economico lasciato a sé stesso, non tende affatto all’equilibrio della piena occupazione, ma che al contrario, esso si può ben equilibrare in una situazione di depressione, con un livello di consumo e di produzione bassi ed un alto livello di disoccupazione.

L’idea che il risparmio sia reddito non consumato e che esso debba salire necessariamente se cresce l’economia, è comunque ancora presente nella testa di molti economisti come in fondo, lo era anche nella testa di Keynes.

Sulla scorta di questa idea, è sufficiente che riparta un processo di crescita del PIL per ottenere nuovo risparmio, nuovi investimenti ed innescare un nuovo circuito virtuoso.

Perciò la cura proposta da Keynes fu quella che lo Stato dovesse intervenire facendo debiti pur di immettere nel sistema la liquidità necessaria per nuovi investimenti e per creare un clima di fiducia che inducesse i risparmiatori ad abbandonare la propria reticenza all’impiego dei capitali tesaurizzati.

Per questa ragione, tutte le politiche monetarie tendono ad effettuare iniezioni di liquidità nel sistema sufficienti a creare nuovi investimenti che possano generare nuovo risparmio.



5. Dopo la rivoluzione keynesiana: monetarismo e liberalismo


La rivoluzione keynesiana, così come venne chiamato il complesso di interventi proposti da Keynes e dai suoi sostenitori, si impose subito dopo la fine della seconda guerra mondiale, e generò una corrente di pensiero che restituiva allo Stato il ruolo di regolatore del mercato e dell’andamento dell’economia.

Seguirono oltre vent’anni di ininterrotta crescita nelle economie di tutto il mondo, finché con l’inizio degli anni settanta non apparve lo spettro dell’inflazione a dimostrare che nel modello ideato dai keynesiani c’erano alcune incongruenze che ne limitavano l’efficacia e la validità.

D’altra parte Keynes si era occupato essenzialmente della grande depressione del ’29 ed il suo Teoria Generale parla prevalentemente dei problemi di quel periodo. Allora il problema principale per la finanza era la deflazione e non certo l’inflazione, e la cosa urgente da fare sembrava proprio quella di far ripartire l’economia a tutti i costi.

Come ho già detto, Keynes giustificò in termini scientifici quell’indebitamento dello Stato che durante la crisi fu preso per una dura necessità politica anche se dalle conseguenze gravide di incognite.

All’inflazione pose rimedio il monetarismo di Friedman e della scuola di Chicago che mandò in soffitta il keynesismo.

Friedman dimostrò che l’offerta di moneta aveva una propria autonoma funzione all’interno del sistema mentre la teoria economica non la considerava affatto, in questo riecheggiando in qualche modo la legge di Say. Per frenare i prezzi era necessario quindi, ridurre l’offerta di moneta, e poiché questa dipendeva dal sistema bancario, la Banca centrale avrebbe dovuto rialzare i tassi di interesse in modo da indurre gli imprenditori a rinunciare ad ulteriori investimenti sul debito.

Andò così, e l’effetto collaterale fu che molte aziende fallirono perché non più in grado di fare fronte ai propri debiti contratti in un periodo in cui i tassi erano molto più bassi, e che altre furono costrette a licenziare parte dei propri dipendenti per evitare a loro volta la chiusura.

In questa situazione, le rivendicazioni salariali subirono un duro colpo e in molti casi i salari furono ridotti, inducendo il sistema ad uno stato di equilibrio con disoccupazione alta e domanda bassa, ma la moneta fu salva e l’inflazione venne domata.

Ovviamente, per fare fronte anche all’aumento di oneri finanziari derivante dal repentino aumento dei tassi di interesse, gli Stati dovettero aumentare le tasse e questo produsse nuova depressione nel sistema.

Alla fine, però, la grande massa monetaria che derivava dalla speculazione finanziaria, non appena i tassi di interesse cominciarono a calare, si riversò sulle borse e in parte sull’economia reale dando vita al boom finanziario degli anni ottanta.

Il resto è storia dei nostri giorni. Gli investitori fuggono spaventati, abbandonando gli investimenti, non appena c’è aria di crisi, e vi rientrano in massa quando tira aria di speculazione. Questo comportamento produce momenti di euforia collettiva alternati a momenti sempre più lunghi di panico e depressione economica.

I capitali invadono un paese, inondandolo di liquidità per un mezzo punto in più di interessi che esso offre, e incuranti del rischio che l’investimento comporta, poiché in realtà questo rischio non è affatto considerato.

All’investitore finanziario, interessa la misura della rendita e non la qualità dell’investimento.

Al primo segnale di crisi, reale o immaginaria che sia, se ne vanno come una mandria di bufali impazzita, travolgendo tutto quello che incontrano sul loro cammino.

E’ la storia recente delle crisi nel Centro America, nei paesi del Sud Est Asiatico, in Russia e in Sud America. Tra alti e bassi sempre più profondamente marcati, il sistema è andato avanti fino ad oggi, continuando a creare moneta nel sistema finanziario e continuando ad arricchire i pochi ai danni dei più. Il divario tra paesi ricchi e paesi poveri si è moltiplicato, e nazioni un tempo considerate ricche sono precipitate ai livelli di reddito che avevano prima della seconda guerra mondiale. All’interno dei paesi ricchi, è sempre più evidente il divario tra ricchi e poveri, e tra i poveri si annoverano fasce sempre più ampie della classe media. La povertà, poi, sta di nuovo assumendo i connotati che aveva durante l’ottocento o i primi decenni del novecento: comporta l’assoluta privazione di tutto, compresi i mezzi di pura sussistenza, cosa assolutamente intollerabile con l’abbondanza di mezzi e di risorse di cui è dotata la società industriale moderna [23] .

6. Il fallimento del monetarismo


Nonostante la produzione del mondo sia stata in sostanziale crescita, il tenore di vita medio delle popolazioni è rimasto stabile se non si è ridotto negli ultimi dieci anni. Il risparmio, un tempo motore dell’economia poiché determinante per gli investimenti, si è ridotto se non azzerato per effetto delle difficoltà crescenti delle famiglie a fare fronte con i propri redditi alle spese correnti.

Anche in altri periodi della storia del capitalismo moderno ci sono stati momenti in cui il risparmio non si riusciva a creare, periodi in cui la crescita ristagnava o era negativa. Nei periodi in cui la produzione nazionale cresceva, invece, corrispondeva anche una crescita del risparmio e questo confortava le teorie di allora.

Invece, da circa un decennio, in tutto il mondo occidentale assistiamo ad una caduta del risparmio unita ad una caduta dei redditi, nonostante il prodotto nazionale continui a salire.

Per la verità, in alcuni paesi fortemente industrializzati, come il Giappone ad esempio, la crescita del sistema da molti anni sembra essersi arenata poiché oscilla tra momenti di stagnazione ed altri di lieve recessione.

In Europa e negli Stati Uniti, invece, i dati statistici danno una complessiva crescita del PIL, decisamente più marcata nel continente americano, e allo stesso tempo una grave crisi della formazione del risparmio.

Negli USA, il risparmio è da anni diventato negativo, nonostante tassi di crescita che per effetto della new economy hanno superato il tasso del 6% all’anno, mentre in Europa il risparmio si è di molto ridimensionato fino a raggiungere la crescita zero in alcuni paesi.

Che cosa è successo? Gli occidentali sono diventati improvvisamente scialacquatori, e dopo aver ottenuto la sicurezza alimentare spendono tutto quello che guadagnano in consumi?

Questa non sembra essere la risposta corretta, poiché in effetti anche la domanda di beni di consumo ristagna o cresce in misura ridotta da molti anni. Oltretutto, è notorio che le famiglie dal principio degli anni novanta hanno visto ridurre il proprio reddito ed hanno difficoltà crescenti a sostenere il peso delle spese correnti. Nello stesso periodo le famiglie povere sono aumentate e quella che sembrava una società opulenta per tutti (e oggettivamente lo è ancora rispetto al tenore di vita medio del XIX secolo), è diventata estremamente opulenta solo per pochi.

Altro dato noto, è che larghe fasce di classe media stanno scivolando verso il basso in condizioni di crescente difficoltà.

Le difficoltà della domanda di beni di consumo, ovviamente si riflettono sulla domanda di beni strumentali e le politiche fiscali adottate in occidente non sembrano avere alcuna efficacia.

Politiche diversissime tra di loro se, mentre in Europa si aumentavano in maniera sostanziosa le imposte e si spingeva la gente a fare sacrifici, negli USA è stata adottata la politica opposta di ridurre le imposte e liberalizzare il più possibile il sistema economico.

Ebbene, sia in Europa che negli USA, con una certa sfasatura temporale dovuta alle differenti condizioni economiche e politiche dei due continenti, l’economia ha dapprima rallentato e poi, con l’inizio del nuovo millennio, è entrata in una crisi di grave portata e dall’esito assolutamente incerto, sia per il profilo economico che per quello politico.

Questa situazione non si riesce ad affrontare efficacemente con i tradizionali strumenti di intervento elaborati dal pensiero e dalla pratica economica e finanziaria dopo Keynes. La sensazione sempre più diffusa è che gli strumenti di intervento abbiano del tutto perduto la loro capacità di incidere sull’economia.

Da un lato, la spesa pubblica è fortemente ridotta in Europa dai limiti imposti dall’accordo di Maastricht che impone ai paesi aderenti di raggiungere il pareggio di bilancio entro una data prefissata e comunque di tenere in costante ribasso il deficit annuale.

Negli Stati Uniti, dopo due anni straordinari di gestione in avanzo di bilancio, a seguito di una congiuntura favorevole, che ha visto la riduzione delle spese pubbliche sommarsi ad una stagione eccezionale di guadagni borsistici e di crescita dell’economia, il deficit ha ripreso a salire e con esso il debito pubblico, né questo è valso a far riprendere l’economia statunitense.

D’altra parte, sull’economia americana grava un pesante disavanzo della bilancia dei pagamenti alimentata anche dalla scarsa competitività delle merci statunitensi per effetto della debolezza dell’euro.

Gli interventi sui tassi delle banche centrali europea ed americana, non hanno parimenti prodotto alcuni risultato tangibile. Negli USA, il Presidente della FED, Alan Greenspan, ha tagliato i tassi in rapida successione portandoli dal 6,5% del gennaio 2000 all’1,50% dell’ottobre 2002. Nonostante ciò, l’economia non solo non si è ripresa, ma continua a dare segni sconfortanti agli operatori finanziari ed economici e ad aggravare il clima di sfiducia che si è creato circa la ripresa dell’economia e intorno alle sue istituzioni.

Le peggiori previsioni sull’andamento dei corsi borsistici si sono realizzate nello sconforto generale, e non sembra affatto che si sia raggiunto il fondo della discesa.

Insomma, né gli interventi monetari, né le iniezioni di liquidità possibili per effetto della spesa pubblica in deficit, hanno portato ad alcun risultato tangibile.

La BCE, per sostenere il deprimente corso dell’euro, ha tenuto i tassi ad un livello decisamente più elevato del dollaro, e anche questo, oltre ai vincoli portati dall’accordo di Maastricht non ha favorito la ripresa dell’economia europea che ogni anno viene rinviata a quello successivo, tra l’imbarazzo (si fa per dire) delle autorità responsabili, lo sconforto degli operatori economici, e l’irritazione crescente della gente comune, che comincia seriamente a dubitare dell’attendibilità di governi, economisti e persino di istituzioni tradizionalmente attendibili come l’ISTAT.

L’effetto più evidente della crisi è proprio quello della debolezza cronica della domanda. Così come nel ’29, le aziende hanno i magazzini pieni, ma mancano i soldi per acquistarle, nonostante le favorevoli condizioni cui molte merci sono offerte.

In molti settori dell’economia di produzione si sta verificando una situazione di grave deflazione, insieme ad una accelerazione dei prezzi di altri beni, in genere di beni durevoli o di investimento come gli immobili.

Gli investimenti in borsa, dopo la sbornia speculativa dell’inizio del secolo, hanno subito un drastico ridimensionamento in tutto il mondo che in alcuni settori ha assunto la dimensione del crollo.

Insomma chi ha i soldi se li tiene o al più li investe in immobili, con questo contribuendo al rallentamento della velocità di circolazione della moneta.

Ogni tanto si assiste a fiammate speculative in un settore o in un altro, ovvero da un paese all’altro, subito seguite da rapidissime fughe degli investitori speculatori. Alla fuga, segue il disastro economico del settore o del paese.

E’ una nuova specie di quella trappola della liquidità che fu lucidamente analizzata da Keynes. I soldi ci sono, ma non vengono spesi e il clima di sfiducia che genera la mancanza di investimenti produce altra sfiducia ed altra tesaurizzazione con conseguente aggravamento della crisi.

Ovviamente la liquidità esistente è concentrata in poche mani ed è essenzialmente generata nel debito, poiché lo strumento principale per la creazione di moneta nel nostro sistema è appunto il debito.

La situazione è apparentemente senza via d’uscita. Da un lato le autorità monetarie non possono creare troppa moneta perché questa genererebbe un’ondata di inflazione, e dall’altra senza denaro in circolazione le imprese non possono fare investimenti e creare nuova ricchezza. Il denaro esistente o viene “bruciato” in attività speculative che si risolvono in una brusca caduta dei prezzi degli strumenti finanziari (come in borsa) oppure alimenta ondate inflattive gonfiando i prezzi in determinati settori dell’economia [24] . Senza gli investimenti le imprese sono costrette a ridimensionarsi e a ridurre il personale e questo produce una ulteriore contrazione della domanda ed aggrava la crisi economica.